Vittorio Amedeo III era nato nel 1726 e a nove anni aveva perso la madre, Polissena Cristina d’Assia-Rheinfels. Elisabetta Teresa di Lorena, terza moglie di Carlo Emanuele III non gli fece però mancare l’affetto di una madre: curò personalmente l’educazione del ragazzo e fu grazie a lei che come precettore del principe venne scelto, non il solito colonnello e abate, ma un autentico intellettuale, il savoiardo Vicardel di Fleury. Alla scuola del Fleury, Vittorio Amedeo sviluppò un certo amore per le discipline umanistiche, soprattutto storia e letteratura, superando in questo il padre. Il giovane non era precisamente un ribelle ma senza la rigida disciplina di casa Savoia, avrebbe potuto diventarlo. Accettò la ferrea regola della corte, uniformandosi ai suoi cerimoniali e alle pesanti norme che esso comportava: gli orari da caserma, le ispezioni ai reggimenti e alle fortezze.
Rinunciò a condurre in maniera spensierata la sua giovinezza ma riuscì ugualmente a formarsi una piccola corte fatta di uomini di estrazione borghese. In questa sorta di circolo era vietato parlar male del Re ma si poteva parlare male dei suoi ministri, soprattutto del Bogino che era considerato un ottuso reazionario. Ciò non era vero: il ministrro era si un conservatore ma estremamente intelligente e non del tutto insensibile alle nuove idee; gran galantuomo fedelissimo allo Stato e al suo Re.
Vittorio Amedeo però non la pensava in questo modo, ma finchè il turno non fosse toccato a lui non aveva alcuna possibilità di intervenire sugli affari di Stato: in Casa Savoia si regnava uno alla volta! e Carlo Emanuele III non consultava certamente il figlio. Nel 1749 gli aveva ordinato di sposare l’infanta Maria Antonietta sorella del re di Spagna Ferdinando VI, e Vittorio Amedeo aveva obbedito.
Il principe salì al trono a 47 anni e il suo primo pensiero fu quello di sbarazzarsi del ministro Bogino, che venne licenziato senza tanti complimenti. Ma le grandi riforme che tutti speravano di avere con il nuovo re, non arrivarono. Vittorio Amedeo non era più un ragazzo e l’età degli entusiasmi era passata da un pezzo. Una volta entrato nella stanza dei bottoni, si accorse che avrebbe dovuto procedere con cautela. Anche a corte, sotto il suo regno, ci furono pochi cambiamenti e il Piemonte continuò ad essere un piccolo regno austero, burocratico e formalista. A malincuore il re, soppresse l’ordine dei gesuiti. Ma concesse loro una buona pensione e di rimanere in Piemonte. La riforma più attesa era quella amministrativa. Il Regno di Sardegna non era mai stato unificato. Esso si divideva in cinque stati: il Piemonte con il Marchesato di Saluzzo e il Ducato del Monferrato, il ducato d’Aosta, il ducato di Savoia, la contea di Nizza con il Marchesato di Oneglia, e la Sardegna. Ognuno di questi stati si reggeva con statuti propri e proprie leggi. In comune avevano solo il sovrano che era rappresentato da un governatore, dal comandante militare, dall’intendente e dal prefetto. Questa situazione era in forte contrasto con le idee illumistiche ma Vittorio Amedeo non vi pose rimedio.
Un certo piglio rivoluzionario lo dimostrò con l’ospitalità accordata alle logge massoniche. A Chambéry ce ne era una di cui era a capo il marchese di Bellegarde. Un’altra era a Torino e si chiamava Loggia di San Giovanni della Misteriosa. Gli iscritti non erano molti e quasi tutti nobili. Con il patronato del Re, la massoneria moltiplicò i suoi proseliti raccogliendone sia a corte che nell’esercito. Certi fermenti e nuove idee in Piemonte nacquero proprio dalla massoneria. Vittorio Amedeo III se ne rese conto solo nel 1794, quando gli eserciti francesi stavano per investire anche il Piemonte. Soppresse le logge ma ormai era troppo tardi.
Il suo regno durò dal 1773 al 1796, cioè 23 anni, e fu un periodo opaco. La pace di Aquisgrana aveva paralizzato le uniche cose che stavano a cuore ai Savoia: la politica estera e la guerra.
Solo con la Rivoluzione Francese le carte furono messe di nuovo in gioco. Vittorio Amedeo non vi era preparato e il Piemonte oppose all’esercito rivoluzionario uno Stato disorganico e una società badata sul privilegio ereditario, con un’economia in dissesto, anche perché il Re era un pessimo amministratore e il vecchio Piemonte crollò come un castello di carte.