Secondo una leggenda, Sant'Ambrogio, impegnato in un pellegrinaggio, sarebbe dovuto tornare a Milano il giorno di Carnevale, in tempo per iniziare le celebrazioni della Quaresima. Ma il pellegrinaggio lo trattenne un po' di più rispetto al previsto, ed egli fu di ritorno quattro giorni dopo il Carnevale. La popolazione nel frattempo aveva continuato nei festeggiamenti prolungando il carnevale fino al sabato.
Ovviamente questa è solo una leggenda e i motivi per cui il Carnevale Ambrosiano dura quattro giorni di più rispetto a tutti gli altri carnevali è completamente diverso.
Il termine “rito ambrosiano” indica la liturgia di gran parte dell'attuale diocesi milanese e di alcune zone delle diocesi limitrofe, anticamente soggette all'arcivescovo di Milano. Nell'Italia del Nord e del Sud, in epoca medievale, esso equivaleva genericamente a “non romano” e designava particolarità liturgiche locali.
Le caratteristiche del rito ambrosiano, lungamente discusse, deriverebbero dall'antica liturgia romana, sebbene nei secoli abbiano subito variazioni e aggiunte. Il rito ambrosiano conserva infatti un severo carattere cristocentrico, non permettendo ad esempio la celebrazione di feste santorali in domenica o nei giorni di Quaresima (ad eccezione delle feste di San Giuseppe e dell'Annunciazione). Fra le numerose differenze rispetto al rito romano, le principali riguardano la durata dell'Avvento (che inizia dopo l'11 novembre e dura sei settimane) e della Quaresima, che non inizia il mercoledì delle Ceneri ma la domenica seguente; sicché il Carnevale ambrosiano dura quattro giorni di più di quello romano, anzi inizialmente i giorni erano cinque, compresa cioè la domenica.
Fu appunto Sant'Ambrogio (ecco da dove deriva la leggenda succitata) a voler mantenere salda la vecchia liturgia, sebbene nei secoli, soprattutto in epoca barocca ai tempi di San Carlo Borromeo, questa peculiarità sia stata a lungo dibattuta.
La lunga campagna contro il carnevale ambrosiano di S. Carlo Borromeo
“Hora qui ricordati, Milano, le mascare, le comedie, i giuochi paganeschi, i balli, i banchetti, gli eccessi delle pompe, le spese disordinate, le risse, le questioni; gli homicidii, le lascivie, le disonestà, le mostruose pazzie e dissolutezze tue”. Così tuonava San Carlo Borromeo nel 1576, anno della peste, contro i milanesi e la loro brama di divertirsi. Anzi due anni prima l'arcivescovo era riuscito, dopo una lunga campagna contro il carnevale, a convincere i fedeli a rinunciare al “quinto” giorno in modo da far finire l'ultimo giorno di carnevale alla mezzanotte del sabato e non della domenica.
In seguito riuscì a proibire i festeggiamenti nella piazza del Duomo ma una delegazione cittadina si appellò addirittura al papa perché l'arcivescovo tornasse sui suoi passi.
In questo clima vagamente apocalittico si giocava la partita della vittoria piena della Quaresima sul Carnevale, che il vescovo conduceva a colpi di editti e di censure; significativamente, quello che a Milano era per tradizione l'ultimo giorno di festa doveva diventare giorno di penitenza e di astinenza.
Da una parte il Borromeo dispensava indulgenze a chi si comunicasse in quella domenica, dall'altra proibiva a chiunque di circolare in maschera nei pressi delle chiese mentre vi si svolgevano le sacre funzioni. L'immagine insistentemente proposta nelle esortazioni alla coesione e all'ordine era quella di un tempio assediato dalla follia del Carnevale, al cui interno si resisteva con eroismo:
“Celebravamo nella nostra chiesa Metropolitana i divini Offici…e quando predicavamo la parola di Dio et il popolo tutto che era nella chiesa con prieghi ad alta voce dimandava a Dio misericordia, strepitavano quasi su tutte le porte della chiesa, et intorno, tamburri, trombe, carozze di concorso, gridi e tumulti di tornei, correrie, giostre, mascherate.”
Nel 1630, dopo la terribile peste descritta dal Manzoni nei “Promessi Sposi”, il Cardinale Federico Borromeo e il governo spagnolo cercarono di abolire quei quattro giorni in più di festa, ma senza successo.
Il carnevale ambrosiano tra fasti e feste
Le sfilate di carri (chiamati anche barconi) lungo i corsi più importanti (dal Duomo fino a Porta Ticinese, da Via Larga fino a Porta Romana, Corso di Porta Orientale) richiamavano sempre una grandissima folla e a nulla valsero le grida per impedire gli eccessi. Il popolo si divertiva a lanciare uova, naturali o non, ripiene di polvere o di liquidi che si spargevano all'infrangersi del proiettile. Le autorità prescrivevano che le uova dovessero contenere acque profumate, per lo più ai fuori d'arancio, rosate o muschiate. Era in uso il lancio delle mele e di liquidi per nulla profumati per mezzo degli “schittaroli” o schizzetti, proibiti però fin dal 1596.
Vi era poi il divieto di mascherarsi con abiti ecclesiastici, a quanto pare un travestimento molto praticato sotto carnevale, pena una multa o tre tratti di corda. La cosa interessante era l'uso della maschera: nonostante fosse aborrita dalla polizia per ragioni facilmente comprensibili, era proibito persino ai birri di tentare di strapparla a chicchessia; per questo era vietato a chi l'indossava di avvicinarsi alle carrozze delle donne e di portare armi e bastoni.
Il carnevale ambrosiano ebbe il suo massimo splendore proprio nel Seicento e soprattutto i teatri divennero la mecca e l'epicentro del Carnevale.
Per i festeggiamenti carnevaleschi l'alta società milanese faceva non solo sfoggio di eleganza e fantasia con abiti, carri e musica ma faceva soprattutto sfoggio di genialità e bravura con l'aiuto di maestri di ballo, di ginnastica e di scherma che si divertivano ad elaborare coreografie sempre più brillanti e sfarzose.
A tal proposito si ricorda Cesare Negri, detto il Trombone, probabilmente perché suonatore di tromba: aveva una scuola di ballo a Milano nel 1554 ed era discepolo di Pompeo Diobono. Pubblicò nel 1602 un volume dedicato alla danza, “Le Gratie d'Amore”, un trattato prezioso perche in esso vengono descritti i balli in uso durante i festeggiamenti del Carnevale Ambrosiano, alcuni dei quali ideati dallo stesso Cesare Negri.
In un sonetto del 1627 intitolato “Origine del Carnevale Ambrosiano” leggiamo:
Sparsa di polve il crin d'orror la fronte,
Li occhi di nubi, di atre rughe il volto
Sembiante ver di un triduan sepolto
Nasuta vecchia Madre di Caronte
Ove con brame a' danni miei si pronte
L'invido sguardo, e il pie veloce hai [volto?
Così a la Donna del digiun rivolto
Sgridava un milanese Rodomonte,
Ed impugnati, per ostarle il passo
(Animato Guerier) spada e pugnale
Faceti un romor che non n'è tanto in Chiasso:
Pur s'acquetò, ma con accordo tale
Che quattro giorni da mangiar di grasso
Fur giunti al ambrosiano Carnevale.
Se Corona murale
O civica si deggia à tal soldato
Non è deciso ancora dal Senato,
Ma il popolo ha giurato
Di farlo cavalcar tutta Contrada
Larga à suon e gridor di Cipollata :
E per ciò ogni brigata
S'invita ad onorar la nobil Festa,
Che non sen vide mai simili a questa;
Ma in pena della Testa
Se ne bandisce prima ogni Bagiano,
Che siegua il quondam Carneval romano.
La cipollata, di cui si parla nel sonetto, era uno strumento a fiato tipicamente barocco a forma di chiocciola che produceva un suono molto rumoroso, probabilmente fu largamente utilizzato durante il carnevale del 1628 quando vi furono festeggiamenti dal sapor di protesta contro il malgoverno e la carestia.
Nel 1672 l'arcivescovo Federico Visconti vietò la raccolta fondi per pagare i musici che suonavano nei giorni di Carnevale e si fa menzione di un fantoccio, simulacro del Carnevale, bruciato in piazza dai milanesi. È questa l'unica testimonianza che abbiamo su un'usanza probabilmente antica ma presto abbandonata dal popolo.
Il carnevale ambrosiano nelle lettere dei Mozart
Il settecento conservò molto del carattere goliardico del secolo precedente ma indubbiamente la dominazione austriaca, succeduta a quella spagnola apportò una serie di modifiche allo stile dei festeggiamenti carnevaleschi. Ne abbiamo testimonianza nelle lettere di Leopold e Wolfgang Amadeus Mozart, che si trovavano a Milano nel 1770: "...domani, (mercoledì delle ceneri) e giovedì qui si mangerá ancora carne, tutti i giorni c'é l'opera e il ballo, l'ultimo dei quali avrá luogo sabato. Ció é autorizzato dal rito ambrosiano che é seguito da tutta la cittá. Nei conventi, invece, ci si attiene all'uso romano e la quaresima comincia il mercoledì delle ceneri. Ma il mercoledì delle ceneri e giovedì tutti i religiosi escono dai conventi per andare dai loro conoscenti in cittá e si fanno invitare per mangiare carne.” Così scriveva Leopold Mozart alla moglie mentre Wolfgang scriveva alla sorella Nannerl:
“potresti credere che io non mi sia divertito, e invece si; non le ho contate, ma credo che siamo andati 6 o 7 volte all'opera, e quindi alla “festa di balo” che comincia, come a Vienna, dopo l'opera, con la sola differenza che a Vienna si balla con maggiore ordine. Abbiamo visto la “facchinad” e la “chicherad”. La facchinad è una mascherata molto bella da vedere, in cui le persone si travestono da facchini o da valletti; c'era una barca che ne conteneva molti, mentre altri andavano a piedi; c'erano anche 4 o 6 bande di trombe e timpani e parecchi gruppi di violini e altri strumenti. Anche la chicherad è una mascherata che abbiamo visto oggi: i Milanesi chiamano chichera quelli che noi chiamiamo bellimbusti o fanfaroni. Andavano tutti a cavallo, era molto bello….”.
Meneghino
Tra le tradizioni del carnevale ambrosiano non può essere infine dimenticata la maschera di Meneghino. Comparve per la prima volta nel Seicento, una maschera del teatro popolare milanese. Rappresenta il tipo del contadino inurbato, veste una casacca verde orlata di rosso, pantaloni e scarpe nere, calze a righe accompagnato dalla moglie Checca. Di buon carattere e privo di istruzione ma pieno di buon senso, è utilizzato sia dal teatro di attori sia dal teatro delle maschere e dei burattini nei ruoli di servo fedele o di piccolo artigiano. Carlo Maria Maggi, commediografo barocco, lo introdusse in molte sue commedie.
Si ringrazia per il contributo la signora Rosanna Brotzu