Alla corte di Versailles esisteva, fin dai tempi del Re Sole, un linguaggio del tutto particolare, una sorte di vocabolario fatto di espressioni e frasi più crude, un gergo insomma che solo la nobiltà era in grado di decifrare e che ogni aristocratico era tenuto a conoscere per non passare per ridicolo. Versailles per la corte era “questo paese” e tutti i nobili erano tenuti a chiamarlo in questo modo.
Era assolutamente vietata la parola “regalo” e si usava al posto di questa la parola “presente”; non si beveva dello Champagne ma del vino di Champagne; un luigi d'oro diventava un luigi in oro; il pranzo del sovrano era chiamato “la carne del re”.
Tutto ciò che poteva servire improvvisamente e in casi particolari veniva definito “nel caso…” .
Eccone alcuni esempi: le camicie e i fazzoletti conservati in una cesta presso i sovrani, nel caso che il re e la regina avessero voluto cambiare biancheria senza doverla richiedere dal guardaroba, costituiva il pacchetto del “nel caso”; se di sera la regina ordinava improvvisamente nei suoi appartamenti un pasto, tutto questo prendeva il nome di “nel caso notturno”.
Gli abiti e gli accessori dei sovrani portati nelle ceste prendevano il nome di “il necessario”.
Il teatro era il tema prediletto di tutte le conversazioni. In genere se ne parlava durante la toiletta della sovrana che voleva essere aggiornata sulle ultime notizie e sulle ultime rappresentazioni teatrali. La domanda “c'era molta gente?” non mancava mai e spesso si sentiva la risposta “non c'era nemmeno un gatto” che non voleva dire che il teatro fosse vuoto ma semplicemente che non c'erano nobili.
Persino la pronuncia doveva essere diversa: per esempio non si portava un “sac” (borsa) ma un “sa”; non si diceva "tabac" ma "taba". Molte di queste pronuncie arcaiche risalenti al ‘600 erano particolarissime e distinguevano le persone di “questo paese”. Si parlava un dialetto molto curioso, frutto del sovrapporsi delle varie espressioni che nascevano dai vari espisodi; episodi di cui si perdeva la memoria ma di cui rimanevano buffe espressioni. Chi non comprendeva questo slang rimaneva tagliato fuori da quasi tutte le discussioni.
Lugi XIV, per esempio, non avrebbe mai detto "l'Etat c'est moi , car je suis le Roi" ma piuttosto "L'etat c'est moué, car je suis le Roué".
Tuttora in Francia esiste uno slang chiamato argot che spesso risulta essere diversissimo dal "classico" francese e che èormai entrato nell'uso comune.
Nel Seicento e nel Settecento chi ignorava e non conosceva queste sottigliezze era pesantemente snobbato; non fu risparmiata nemmeno la marchesa di Pompadour: come borghese ella utilizzava termini che non erano di “questo paese”. Luigi XV re di Francia, molto innamorato, si divertiva e sorrideva del linguaggio borghese della sua amante. Il duca di Luynes scrisse a tal proposito: “Non potendo avere una grandissima conoscenza del linguaggio in uso tra le compagnie con le quali non è abituata a vivere, spesso si serve di termini ed espressioni che in questo paese appaiono straordinarie. C'è motivo di credere che il re si senta spesso imbarazzato di questo modo di parlare.”
Ad una cena a cui assistette Voltaire, furono servite quaglie che la Pompadour aveva definito “grassoccine”. Il grande filosofo si rivolse così alla signora: “Grassoccina, fra noi, fa un po' mezza calzetta .Ve lo dico piano piano, bella Pompadouretta!"
I maligni cortigiani solevano dire della Pompadour: “ Senza spirito, senza carattere/l'anima mercenaria e volgare/i discorsi di una comare/tutto è vile nella Poisson”.
Paradossalmente Jeanne du Barry, molto meno beneducata della Pompadour, riuscì ad acquisire un perfetto linguaggio di corte, ma ciò è spiegabile: prima di diventare contessa, la Dubarry aveva frequentato per più di un lustro solo grandi signori che nel bene o nel male le avevano insegnato il linguaggio di “questo paese”.
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