Un potere da controllare
Nell'ultima fase del Concilio di Trento si studia il problema della rappresentazione pittorica della divinità e i canoni secondo i quali doveva essere affrontata e valutata. I protestanti considerano spesso inopportune o offensive queste rappresentazioni, che nel Rinascimento hanno raggiunto un grado intollerabile di lascivia, opulenza e non conformità alle sacre scritture.
Nella XXV sessione del Concilio vengono messi nero su bianco i nuovi canoni della pittura sacra, alla quale la Chiesa non vuole affatto rinunciare, ma dedicare una particolare attenzione per renderla strumento di propaganda delle dottrine controriformiste. Si istituisce un organo di controllo e di filtro delle opere che avranno destinazione pubblica: saranno i vescovi a giudicare l'idoneità di un'opera e si ricorrerà, in casi dubbi o di controversia con l'artista, all'insindacabile giudizio del Sant'Uffizio, il tribunale della Santa inquisizione con sede a Roma.
Investiti di questa grande responsabilità, i vescovi avranno atteggiamenti che andranno dalla rigidità e l'oscurantismo più totali ad aperture critiche e intelligenti verso lo strumento "pittura": uno di questi è certo il cardinale Carlo Borromeo, grande difensore del valore didascalico ed educativo di una pittura ortodossa, che partecipa attivamente al dibattito e redige un trattato sulla costruzione e l'arredamento dei luoghi di culto, le Instructionesfabricae et suppellectilis ecclesiasticae (1577), in cui è dedicato ampio spazio al ruolo dell'affresco.
Buio e Luce
Il protocollo redatto dal Concilio è molto preciso anche sui temi da trattare: stop a scene idilliache e ridenti, il topos della pittura controriformista sarà la sofferenza e la morte come strumento di affrancamento dai peccati e di elevazione verso Dio. Vengono espressamente consigliati i martiri dei santi, soprattutto quelli più truculenti, come ad esempio la decollazione di San Giovanni Battista, ove si richiede espressamente di ritrarre l'orrido e tetro carcere. La raccomandazione dell'uso di colori non squillanti e di ambientazioni attendibili completa l'humus ideologico in cui opereranno Annibale Carracci, Caravaggio, Veronese e molti altri: le atmosfere tetre, il buio squarciato dalla luce, la verosimiglianza delle scene non sono altro che "invenzioni" della Controriforma che questi grandi artisti interpretano personalizzandole.
E forse ancora di più possiamo capire dei bagliori che tagliano come lame affilate le notti profonde delle tele caravaggesche leggendo ciò che della luce si disse nel Concilio: la luce di natura impalpabile è l'elemento del Creato che più si avvicina alla Grazia e alla natura del divino. Sulla scorta di questo principio, grande attenzione sarà dedicata all'ingresso della luce nelle Chiese e agli effetti teatrali che potrà garantire, e ovunque sarà sappresentata, scolpita, materializzata in forme che oggi consideriamo tra le più distintive del barocco.
Un caso di censura: la "Cena in casa Levi"
Subito dopo il Concilio i dettami controriformisti conobbero una stagione di applicazione molto rigorosa e intransigente: nessuno spazio di equivocità poteva essere lasciato ai detrattori della vera fede.
Nel 1573 Paolo Veronese aveva completato un'enorme tela (13 metri) per il convento domenicano dei santi Giovanni e Paolo a Venezia. La scena ritraeva l' ultima cena e si svolgeva, con dovizia di personaggi e dettagli, sotto uno splendido portico in stile palladiano. Nonostante fosse uno dei momenti culminanti della vita di Cristo, l'attenzione non è concentrata sulla tavola dove si sta compiendo il rito della "comunione" ma distratta da mille altre scene collaterali che nulla hanno a che fare con la vicenda biblica ma che contribuiscono di certo a dare un tono realistico alla scena.
Trattare con leggerezza, laicismo e inattendibilità storica il tema della transustanziazione (la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù), proprio il dogma più attaccato dai protestanti, è inammissibile e Veronese viene convocato davanti al tribunale ecclesiastico per dare spiegazioni. Appellatosi alla libertà che gli artisti, come anche i poeti, si prendono per dare libero sfogo al loro potere immaginifico , non fu condannato ma ci si risolse a cambiare nome all'opera. La cena in casa Levi si rifà all'episodio in cui Levi, ricco pubblicano noto per le sue gozzoviglie, organizza un ricco banchetto per Gesù durante il quale si converte prendendo il nome di Matteo.
Veronese fu costretto ad apportare alcune modifiche e ad ascrivere il nuovo titolo, a scanso di equivoci, sul parapetto della scala in primo piano.
Il "De Pictura Sacra"
Con l'andare del tempo i dettami controriformisti vengono applicati con più elasticità e interpretati in senso più ampio, ma di certo non abbandonati come testimonia la pubblicazione del trattato De pictura Sacra del Cardinale Federico Borromeo nel 1624. Il nipote di San Carlo, protagonista della prima ora della Controriforma, riprende i lavori del Concilio concernenti la pittura, li organizza in modo organico e li interpreta ad uso e consumo di quelle che sono le tendenze del neonato stile barocco.
Non è un caso che il primo capitolo del trattato si intitola Del bello e vi si ammette che anche nel vivere umano si ricerca e piace soprattutto agli occhi degli spettatori ciò che si chiama il decoro; quello splendore cioè o quella luce o fiore che risulta da ogni movenza e da ogni gesto, luce e fiore di cui l'animo si allieta. E quella gioiosità e quel piacere, siccome è insito in tutte le opere che si compiono con venustà e grazia, così l'arte lo trasfonde nelle immagini che coi colori o nel marmo riproducano quelle azioni umane.
Assistiamo quindi al recupero di una dimensione estetica e del piacere "sensuale" che l'arte può offrire, pur avendo un soggetto sacro e lo scopo di propagandare una dottrina rigorosa.
Ma la sensualità e la "vivacità" barocche non si attuano con lo stesso linguaggio colorato e idilliaco del Rinascimento: continua infatti Federico che i morti colori e questi morti marmi non sdegnano le leggi del decoro, ne abbisognano anzi di più. Ecco quindi una precisa indicazione sulla scelta dei codici espressivi del XVII secolo.
Tra verità e teatralità
Il trattato si sofferma poi sulla necessità di attenersi pedissequamente alle scene e ai personaggi biblici, senza abbandonarsi alla fantasia, e ritrarre i personaggi con abiti adeguati al loro ruolo e rango, limitando i nudi (a tal proposito viene citato Michelangelo come esempio negativo). Federico esorta ad un recupero "filologico" degli abiti dell'epoca, evitando di rifarsi a quelli della tradizione "gentile" dei miti greci e romani che a suo avviso nel 4-500 hanno completamente contaminato il modo di rappresentare "l'antico" anche in temi sacri.
Grande importanza è dedicata al valore educativo della pittura, che sarà raggiunto solo se la scena concentrerà l'attenzione sui personaggi principali (tramite la luce e l'eliminazione di particolari inutili che distraggano) e se in questi sarà ben visibile una partecipazione emotiva alla situazione.
Vorrei pertanto che i nostri artisti o s'impegnassero ad esprimere i sentimenti o, se a ciò non valgono, manifestassero in qualche modo sforzo e dolore: ecco la teatralità interpretativa del barocco che prende il posto delle espressioni ieratiche e distaccate dei personaggi 4-500 eschi, eterei e imperturbabili: questi sono i principi ispiratori delle smorfie di dolore di Caravaggio, delle estasi carnali di Guido Cagnacci e di Bernini, espressioni che deformano i volti, che torcono i corpi per contorcere e contrire l'animo di chi guarda.
Seguono poi istruzioni scrupolose per la rappresentazione della Trinità, di Cristo e della Beata Vergine, degli Angeli e delle insegne sacre, tutte da doversi rappresentare con una verosimiglianza e una storicità che non fanno sconti anche alle situazioni più cruente, anzi ricercate con una certa propensione per il truculento e il macabro. Questi particolari fanno molto presa sull'immaginario popolare e si raccomanda che a Santa Lucia si pongono in mano gli occhi quasi segno del genere del martirio, allo stesso modo che a San Lorenzo si pone in mano la graticola e a San Sebastiano le freccee a San Bartolomeo la sua propria pelle scorticata via dalle carni.
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e per finire ecco il link al De pictura sacra di Federico Borromeo (1624) in forma integrale