Pietro Chiari (Brescia 1712-1785) fu gesuita, arcade, poeta di corte del duca di Modena nonchè autore di versi, di romanzi ai suoi tempi popolarissimi e di numerose commedie in prosa e in versi. Deve appunto la fama, più che ai meriti letterari, al fatto di aver partecipato con queste ultime all’animatissima vita teatrale della Venezia settecentesca e all’essere stato, prima del clamoroso esordio scenico di Gozzi, il più famoso nemico della riforma goldoniana. Infatti, abbandonata la Compagnia di Gesù, nel 1747 si stabilì proprio a Venezia, dove rimase fino al 1762, prima di ritirarsi nella città natale.
Poligrafo instancabile e superficiale, nella città veneta scrisse decine di commedie: a La vedova scaltra di Goldoni rispose con La scuola delle vedove (1749), a La sposa persiana con La schiava cinese (1753), al Filosofo inglese con Il filosofo veneziano (1753) e così via. Adulando i comici e lusingando il pubblico, ottenne facili ed effimeri successi. Al 1761 risale la riconciliazione con Goldoni e nel 1761-62 subentrò a Gozzi come direttore della “Gazzetta veneta”.
Mentre scriveva per il teatro, Chiari si dedicava anche a una copiosa produzione di novelle e, soprattutto, romanzi (circa quaranta), generalmente in prima persona, con protagonisti femminili, patetici, avventurosi, amorosi e non di rado di fondo erotico. Oggi ritenuti noiosi alla lettura, ebbero enorme smercio e servirono a introdurre il genere romanzesco in Italia. Tra i più famosi: La filosofessa italiana (1753), La cantatrice per disgrazia (1754), Le memorie di madama Tolot ovvero la giocatrice di lotto (1757), La bella pellegrina (1759), La francese in Italia (1759), La veneziana di spirito (1762).
Tratteremo qui del primo romanzo, primo di Chiari e primo nella storia della letteratura italiana: La filosofessa italiana, o per essere completi La filosofessa italiana, o sia le avventure della Marchesa N. N. scritte in Francese da lei medesima. E’ una narrazione di ampio respiro (dapprima tre volumi e dalla seconda edizione quattro) al cui centro c’è una figura femminile sottoposta a una gamma sterminata di peregrinazioni e prove straordinarie.
Di filosofia in senso tecnico non è il caso di parlare: la protagonista si esercita in una filosofia naturale e spontanea, usa cioè il buon senso della quotidianità rafforzato dalla propensione a fare confronti e trarre conclusioni, così come è sempre lei ad esaltare quella forma di autoeducazione che s’identifica con la lettura dei libri, intesa come un modo innovativo e “anarcoide” di crescita complessiva. L’elogio del libro riprende il motivo ricorrente nella strategia settecentesca di diffondere la cultura in forma accessibile e utile. L’ostentata passione per la cultura arriva a suggerire situazioni narrative paradossali, al limite della parodia, come quando la relazione finale con l’Abate N. N. rappresenta l’approdo “filosofico” di un’esistenza attiva e spregiudicata.
Le avventurose vicende di M.me d’Arvile (tale è il suo nome all’anagrafe) sono il medium scandaloso e irrefrenabile in cui si trova ad operare chi, allontanandosi, dai luoghi della protezione istituzionale, si muove in cerca di una meta non ben definita. Ne deriva per l’appunto una situazione paradossale di fondo che ne innesca altre per cui la spasimante, che attraversa l’Europa alla ricerca dello sposo, è un’eroina intraprendente: il suo girovagare è un viaggio di perlustrazione e disvelamento, durante il quale la Madamigella si confronta con realtà diverse da cui trae una lezione di saggezza critica.
Si capisce perché la protagonista rimarrà nella memoria dei denigratori come il prototipo del disordine portato dai nuovi tempi e dalle filosofie straniere. Per Carlo Gozzi come per il fratello Gasparo e altri lettori del tempo il nome di filosofessa è carico di risonanze indecorose. Chiari, con mossa astuta, aggiunge una compagna scandalosa ai tanti filosofi che imperversavano nei titoli e nelle pagine narrative e teatrali.
Nel romanzo si accumula in quasi mille pagine tutto il romanzabile europeo, e l’Abate bresciano fu abile ad adeguare una presunta strutturale inadeguatezza di base della lingua letteraria a gestire ogni conato di rinnovamento. Chiari, nutrito alla grande scuola latineggiante dei Gesuiti, si trovò ad affrontare il problema di come volgere una lingua d’impronta classica ad un uso più speditamente narrativo. Vi è pertanto un parallelismo tra autore e protagonista: la “rivolta” delle filosofesse e le esigenze del letterato post-umanista si pongono su un piano di specularità ideologica.
La smodata scrittura narrativa di Chiari sfugge ad ogni sorveglianza e si colloca in una zona di frontiera, con l’ambizione, a volte frustrata a volte no, di attestarsi su un esito di facile, fuggevole fruizione su cui pende la minaccia della scompostezza e dell’appesantimento. Chiari cerca, con mezzi approssimativi, di adeguarsi a modelli ideologici e stilistici anticonformistici: lo fa apportando significative innovazioni che arrivano a stravolgere la filosofia “nuova”.
La formula è quella della narrativa avventuroso-sentimentale che risaliva al modello della peripezia greca e alla maniera molto acclamata dei cicli dell’età barocca. Rimane il topos dell’agnizione e del matrimonio di alto rango con la conseguente scoperta dei nobili natali, ma dentro a questo tracciato d’obbligo l’autore lavora con una curiosità e una sfrontatezza che ricordano altre fonti. Il genere picaresco s’impresse nella memoria di uno sperimentatore disinvolto e sconveniente come Chiari.
Tornando alla trama, si arriva alla scoperta dei nobili natali dopo essere partite orfane – e in effetti il cognome N. N. - da un collegio francese, per passare da tutta una serie di “imposizioni” e “dimostrazioni” della propria gradevole filosofia mondana attraverso duelli di cappa e spada e seduzioni amorose e amicali, la prima di quest’ultime essendo quella, a Lione, del Signor d’Arcore (proprio così…).
La suspense della Filosofessa s’identifica con una tensione continuata da cui scaturiscono la dilatazione dell’intreccio e un concatenarsi di coups de thèatre che si inseguono con una disinvoltura spavaldamente eccessiva. Agli spericolati personaggi Chiari fornisce lo sguardo di chi osserva divertito l’umana stoltezza e la volubilità delle passioni. La filosofessa non teorizza, ella partecipa agli eventi, ma sa distaccarsene per affidarsi ad osservazioni e commenti che sono la sostanza del suo scanzonato pragmatismo, una forma di saggezza tutta calata nei fatti, intrisa di un’umanità irridente.
Proprio la formula che unisce l’avventuroso al filosofico fu all’origine della fortuna del romanzo settecentesco in generale e di questo in particolare: l’incredibile si coniuga all’ovvio, il racconto scorre in un compiaciuto disordine mentre la protagonista tiene testa con destrezza a quanto le viene brutalmente incontro con un atteggiamento relativistico e col rifiuto di ogni chiusura gnoseologica e comportamentale. Tale ottica permette di parlare di una filosofia che sorregge il racconto e fa luce sulla sua modernità illuminata e scanzonata.
Chiari opera dentro l’orizzonte di un mondo in subbuglio, non ancora calato in forme sociali solidificate e affida questo senso di precarietà a un modello narrativo disinvolto, anzi decisamente contraddittorio. M.lle d’Arvile cerca il matrimonio, ma si troverà appagata dalla vita di “vedova” filosofica; sceglie di vivere appartata dopo aver scorrazzato per molte terre. Il suo mondo è estraneo alle leggi del lavoro e del mercato: la donna che lavora non è prevista in questa saga di nobiltà degradata; quello che l’attrae è il gusto per l’avventura gratuita. Il luogo retorico e logico di questa formula narrativa è la figura del paradosso, che mette in circolo un tipo di suspense intellettiva opposto alla razionalità lineare della Grande Filosofia, nonostante gli intenti dichiarati e per fortuna.
La Filosofessa non trasmette una pacificata visione dei rapporti sociali; la sua informalità è la spia di una condizione di vita precaria ed irrisolta; la protagonista si allena a vivere a contatto con i pericoli e le sorprese di un’esistenza per cui sono necessari stratagemmi di sopravvivenza in luoghi lontani dalle corti, spesso in fermento militare, socialmente indefinibili. La tanto vituperata promiscuità in cui incappa la fanciulla è il simbolo di chi accetta il rischio di avanzare retrocedendo su un terreno ignoto e imprevedibile.
Alle spalle c’è uno stile di vita creativo e scandaloso, che sta ancora nell’inventiva picaresca. Siffatto stile irrefrenabile presuppone uno sguardo vitale e ammiccante sul mondo. Al suo esordio il romanzo del Settecento italiano rompe ogni schema e suggerisce un gagliardo piacere del vivere avventuroso, appagato del proprio movimento e sostenuto dal gusto di sfidare le leggi della buona società e della buona scrittura.