La lingua spagnola
Mentre a poco a poco cominciavo a conoscere la nazione nella quale sarei vissuto, giunsi a Guadalaxara, Alcala e Madrid. Guadalaxara e Alcala! Che cosa sono queste parole, questi nomi dove non sento che la vocale a? Il fatto è che la lingua dei Mori, di cui la Spagna è stata patria per parecchi secoli, ha lasciato in tutto il paese un gran numero di parole.
Ora tutti sanno che la lingua araba abbonda di a, e i dotti che amano disquisire di queste cose non hanno tutti i torti a pensare che l'arabo debba essere considerato la lingua più antica del mondo, giacché l’ a è la vocale più facile in quanto è la più naturale. Non si devono perciò considerare barbari nella bella lingua spagnola i termini in cui non vi sono altre vocali, come ala, achala, Aranda, Almada, Acara, bacala, Agapa, Agrada, Agracaramba, Alava, Alamata, Albadara, Alcantara, Alcaraz, Alcavala e mille altre che hanno l'effetto di rendere il castigliano più ricco di tutte le altre lingue, una ricchezza che, come il lettore ben comprende, non può consistere che in sinonimi, perché se è facile inventare parole nuove è, invece, difficile trovare nuove qualità e addirittura impossibile creare nuove cose.
Comunque sia, la lingua spagnola è indubbiamente una delle più belle della terra: sonora, energica e se la si pronuncia ore rotundo è suscettibile della più sublime armonia poetica e in quanto a musicalità sarebbe addirittura pari all'italiano, se non avesse le tre gutturali che ne guastano la dolcezza, nonostante quel che possono dirne gli spagnoli, i quali, come è giusto, sono d'avviso contrario, ma, ovviamente, bisogna lasciarli dire: quisquis amat ranam ranam putet esse Dianam.Il suo timbro, comunque, la fa sembrare, a orecchie indifferenti, più imperativa di tutte le altre lingue. (Giacomo Casanova, Storia della mia vita, cap.XV)
Uomini e donne in Spagna
…gli spagnoli sono tutti magri e mingherlini e freddolosi, al punto che quando tira il minimo vento, anche d’agosto, non escono se non avviluppati fino agli occhi in un gran mantello di panno.
Gli uomini, in Spagna, hanno una mentalità condizionata da un’infinità di pregiudizi, mentre le donne sono, in generale, più libere. Gli uni e le altre, poi, vanno soggetti a passioni vive come l’aria che respirano. Tutti sono prevenuti nei confronti dei forestieri, ma non sono capaci di dare una spiegazione logica di questo loro atteggiamento, perché tale forma di ostilità viene loro da una sorta di odio innato, cui si assomma un disprezzo che può derivare solo dal fatto che lo straniero non è spagnolo. Le donne, che riconoscono quanto quell’odio e quel disprezzo siano assurdi, ci vendicano amandoci, ma devono farlo con estrema circospezione, perché lo spagnolo, geloso per natura, vuole esserlo con la giustificazione di essere dalla parte della ragione. Ha infatti legato l’onore alla minima deviazione della donna che gli appartiene, e maschera così la viltà di un animo che ha paura con il velo rispettabile che avvolge il santuario dell’onore e, anche, della religione. Superstizioso all’eccesso, lo spagnolo è anche incorreggibile perché non sa di esserlo. L’arte di corteggiare e sedurre, in quel paese, non saprebbe essere che misteriosa, poiché tende a un godimento che non ha l’eguale ma che, d’altra parte, è proibito. Di qui nascono i segreti, gli intrighi e i turbamenti dell’anima che oscilla fra i doveri imposti dalla religione e la forza della passione che li combatte. Gli uomini sono, in generale, più brutti che belli, ma le donne sono molto belle, ardenti di desiderio e sempre pronte a favorire qualsiasi maneggio tendente a ingannare coloro che stanno loro intorno per spiare i loro intrighi. L’amante che preferiscono a tutti gli altri, che sono timidi e rispettosi e che stanno sempre in guardia, è quello che non esita a sfidare i pericoli, e per lo più se ne tengono uno per spirito di civetteria, ma in fondo lo disprezzano. Al passeggio, nelle chiese e agli spettacoli, le spagnole comunicano con gli occhi a coloro cui vogliono parlare e conoscono questo affascinante linguaggio alla perfezione. L’uomo che deve capirlo, se sa cogliere l’occasione e avvalersene, è sicuro di ottenere tutto ciò che vuole, perché sa che non deve aspettarsi nessuna resistenza. Però, se trascura l’invito o non ne approfitta subito, non gliene vengono offerti altri. (Giacomo Casanova, Storia della mia vita, cap.XV)
Calzoni in Castiglia
In quell'epoca, nelle due Castiglie, la questione religiosa che travagliava maggiormente le coscienze era quella dei calzoni senza risvolto. Gli uomini che li indossavano venivano tradotti in prigione e i sarti che li avevano confezionati puniti, ma ciononostante la gente continuava a portarli e i preti e le monache si sgolavano invano sui loro pulpiti a inveire contro quell'indecenza. Si temeva, anzi, una rivolta che avrebbe fatto ridere tutta l'Europa, ma fortunatamente si giunse a una soluzione senza spargimento di sangue. Fu, infatti, emanato un editto, che fu appeso sulla porta di tutte le chiese, in cui si diceva che solo il boia era autorizzato a portare calzoni di quella foggia. Allora la moda decadde rapidamente, perché nessuno voleva essere preso per un boia solo per poter usufruire di tale privilegio. (Giacomo Casanova, Storia della mia vita, cap.XV)
Il re si diverte
In quei giorni a Portici si trovava anche il re1 con tutta la corte. Andammo quindi a vederlo e assistemmo a uno spettacolo straordinario che, per quanto comico, non fece ridere me né l'avvocato. Il re, che aveva allora diciannove anni, si divertiva con la regina in un grande salone a fare ogni sorta di buffonerie, e a un certo punto gli era venuta voglia di farsi sballottare in aria su una coperta tenuta agli angoli da quattro uomini di buone braccia, che la tendevano d’un colpo tutti insieme. Il re, però, dopo aver fatto ridere i suoi cortigiani, con la sua esibizione, ebbe voglia di ridere a sua volta e prese a proporre alla regina2 di compiere anche lei quell'esercizio. La regina però si schermì con grandi risa e il re non osò proporlo alle dame presenti, per timore credo, che accettassero. I vecchi cortigiani, impauriti se la svignarono alla chetichella con mio grande rincrescimento, perché sarei stato proprio felice di vederne qualcuno saltar per aria, specialmente il principe di San Nicandro che lo aveva educato malissimo, cioè troppo alla napoletana, e per di più inculcandogli i suoi pregiudizi. Il re, dunque, che non desisteva dal suo proposito, si vide ridotto a proporre il gioco ai giovani signori presenti, che forse ambivano quella prova di favore del loro scherzoso monarca. Quanto a me, non potevo temere di vedermi costretto quell'onore, perché ero uno sconosciuto e, oltre tutto non ero abbastanza nobile per meritarlo.
Cominciarono a saltare tre o quattro, dando ciascuno, chi più chi meno, prova del proprio coraggio. La regina, le dame e tutta la compagnia, naturalmente, morivano dal ridere: era, il loro, un ridere alla napoletana, tutto diverso dal ridere sotto i baffi della corte di Spagna e nient'affatto paragonabile a quello della corte di Francia e delle altre corti, dove si soffoca anche lo starnuto e dove qualsiasi galantuomo è perduto se osa lasciarsi vedere sbadigliare. A un certo punto, nel pieno del divertimento generale, il re gettò gli occhi su due giovani fiorentini, da poco arrivati a Napoli, fratelli o cugini, che si trovavano lì in compagnia del loro precettore, il quale non aveva potuto fare a meno di ridere con loro alla vista dello sballottamento di Sua Maestà e dei suoi favoriti.
Il re, molto graziosamente, si avvicinò ai due malcapitati toscani, i quali, gobbi tutti e due e per di più piccoli e brutti, rimasero stupefatti quando si sentirono invitare a spogliarsi e a dar spettacolo agli invitati. Nella sala scese un silenzio profondo e tutti pendevano dalle labbra del re, il quale, sollecitando i due a svestirsi, dava loro a intendere che facevano molto male a rifiutarsi, perché se la loro perplessità dipendeva da una forma di ripugnanza a far ridere i presenti in quel modo, non potevano sentirsi umiliati a fare una cosa di cui egli stesso aveva dato per primo l'esempio.
E poiché anche il loro precettore, ben sapendo che non c'era niente da fare perché il re non avrebbe mai acconsentito a cambiare idea, li esortava a prestarsi all'onore che Sua Maestà faceva loro, i due poveretti finirono con il cedere e si tolsero gli abiti. Il silenzio che gravava nella sala si dissolse di colpo e di fronte allo spettacolo della complessione fisica dei due disgraziati scoppiò un boato di risate. Di fatto, la vista di quei due corpi gobbi davanti e dietro, piantati su un paio di cosce magroline che costituivano tre quarti della loro altezza, faceva ridere senza ritegno tutti i presenti, anche l'austero precettore che si affaticava a infondere loro coraggio e che si vergognava di vedere che il più grandicello piangeva. Il re, garantendogli che non correva alcun rischio, prese il poveretto per mano e lo fece sistemare in mezzo alla coperta, di cui, per onorarlo quanto più poteva, prese personalmente una falda.
Certo era impossibile non ridere nel vedere quel corpo malformato volare tre o quattro volte in aria all'altezza di dieci o dodici piedi, e tutti, in effetti, risero a crepapelle.
Finita quella tortura, il gobbo andò a rivestirsi, lasciando il posto all’altro che però si sottopose all’operazione assai più di buon grado. Intanto il precettore, cui il re aveva in mente di concedere l’identico onore dei suoi pupilli, se l’era svignata, e ciò fece ridere il monarca veramente di gusto.
Così assistemmo gratis ad uno spettacolo che valeva oro e più tardi, a tavola, Don Pasquale Latilla, che fortunatamente il re non aveva scorto, ci raccontò su quel buon monarca un gran numero di episodi che erano altrettante prove del suo eccellente carattere, e anche, della sua innata disposizione a divertirsi a spese della fastidiosa serietà che tutti affibbiano alla maestà regale.
(Giacomo Casanova, Storia della mia vita, cap.XXV)
1) Ferdinando IV (1751-1825), re di Napoli dal 1759, quando successe al padre che salì sul trono di Spagna con il nome di Carlo III
2) Maria Carolina (1752-1814)
Giacomo Casanova Lettera d'amore di Manon Balletti Casanova medico mancato