Infanzia e giovinezza
Jean Jacques Rousseau nacque a Ginevra nel 1712, da una famiglia calvinista di origine francese e come Voltaire, perse la madre nel venire al mondo. Conobbe fin dall’infanzia la solitudine e la miseria. Il padre, uomo avaro e brutale, si disinteressò di lui e affidò il bambino ad uno zio, che crebbe sotto una stretta dieta di busse e patate.
A dieci anni Jean Jacques si innamorò della sua maestra che ne aveva trenta, ed egli stesso racconta nella sua autobiografia le“Confessioni”, che appagava il desiderio di lei combinando delle marachelle che la obbligavano a punirlo. La sua personalità era dunque già delineata: edipismo, onanismo e masochismo; trascorse la vita ad amare donne più anziane di lui e a farsene maltrattare. Ma queste sue propensioni non si limitarono al sesso: fu sempre un solitario, un autolesionista che rovinò regolarmente le sue amicizie per il piacere di sentirsi tradito e perseguitato.
A 12 anni dovette interrompere gli studi per lavorare; svolse qua e là vari mestieri, frequentò gli ospizi e, per guadagnarsi i favori di un prete, si convertì al cattolicesimo.
Fu poi assunto come lacchè in una famiglia di Torino; vi commise un furtarello e cinicamente ne incolpò una povera fantesca. Alla fine fu assunto come segretario da una baronessa savoiarda, certa Warens. Costei, frigida e adescatrice, comprese le debolezze di Jean Jacques, e perfidamente si divertì a stuzzicarlo. Divennero presto amanti ma entrambi ci trovarono poco gusto, lui addirittura pianse tra le braccia di lei, da allora la chiamò “mamma” e lei “gattino”.
Fu la Warens che gli trovò prima un posto di precettore presso una famiglia di Lione e poi di segretario presso l’ambasciatore di Francia a Venezia. Rousseau riuscì a perdere l’uno e l’altro per le sue stramberie ma finalmente si stabilì a Parigi dove si guadagnò da vivere copiando spartiti musicali, l’unico mestiere che era riuscito ad imparare.
Trovò poi il modo di allacciare relazione con i più noti filosofi, fra cui Grimm e Diderot che lo presentarono alla signora d’Epinay, donna colta e generosa, padrona di uno dei salotti intellettuali più accreditati. Nella brillante società parigina, Rousseau si trovava a disagio, anche perché soffriva di una stenosi all’uretra che gli procurava la ritenzione delle urine e quindi un continuo e tormentoso stimolo.
Si trovava molto meglio in compagnia di una ragazza del suo quartiere, mezzo analfabeta, Teresa Levasseur, che gli rimase sempre fedele e devota. Teresa gli diede, uno dopo l’altro, cinque figli, che Rousseau puntualmente abbandonò alla ruota di Parigi, e che non rivide mai più. Seguitava a tirare avanti copiando musica e anche componendone, mentre i suoi amici lo aiutavano di nascosto passando qualche sussidio a Teresa.
I primi scritti
Solo nel 1750, quando aveva già 38 anni, Rousseau si decise a fornire un saggio mandando, a un concorso indetto dall’Accademia di Digione, un “Discorso sulle Arti e sulle Scienze”. In esso lo scrittore cercava di dimostrare che la cultura aveva corrotto l’uomo invece che migliorarlo e che il meglio di se l’umanità lo aveva dato solo allo stato di natura. Era esattamente il contrario di ciò che i Filosofi sostenevano nell’Enciclopedia ma incredibilmente Diderot approvò il testo. Probabilmente voleva incoraggiare Rousseau per farlo uscire in qualche modo dall’oscurità, e ci riuscì. L’Accademia premiò il lavoro e tutta Parigi, che della cultura faceva una specie di religione, lesse con avidità e parlò con entusiasmo di quel saggio-requisitoria contro la cultura.
Rousseau dal canto suo tornò alla musica e ad una sua operetta, “L’indovino del villaggio” che fu rappresentata a Corte ed ebbe gli elogi di Luigi XV che volle conoscere l’autore. Rousseau però, per via dei suoi disturbi uretrali, non potè accettare l’invito del sovrano.
Ormai sembrava che la lirica fosse la sua vocazione e sull’argomento preparò anche molte voci per l’Enciclopedia. Ma nel 1753 si ripresentò al solito concorso dell’Accademia di Digione con un altro saggio sulle“Origini e fondamento dell’ineguaglianza fra gli uomini”. In esso lo scrittore diceva che la società ideale è la famiglia patriarcale, e che a distruggerla era stato un “fatale accidente”: l’istituzione della proprietà privata, fonte di tutte quelle ineguaglianze e ingiustizie economiche e sociali su cui si fonda il cosiddetto “progresso”.
Questa volta i Filosofi, che avevavo creduto Rousseau uno dei loro e che per il progresso si battevano, cominciarono ad allarmarsi. Diderot cercò di rimetterlo sulla buona strada commissionandogli per l’Enciclopedia un saggio sull’economia politica. Rousseau si dimostrò docile: nel suo nuovo scritto egli ritrattò le tesi dei due precedenti saggi, affermando i supremi diritti della comunità sui singoli. Ma l’armonia tra lui e i Filosofi si era ormai inclinata. Gli illuministi erano uomini che appartenevano alla società pur volendola riformare, l’amavano e ne condividevano il costume. E Rousseau, anche nelle sue abitudini di vita, assomigliava ad un barbone asociale che non voleva stare alle regole del gioco.
La rottura con i Filosofi
La prima ad accorgersi della diversità di Rousseau fu la signora d’Epinay che cercò di mettere a suo agio lo scrittore offrendogli una graziosa casetta di sua proprietà in mezzo al bosco di Montmorency, l’Ermitage. Rousseau rimase incantato da quella solitudine e ne fu commosso. Grimm invece scrisse alla d’Epinay: “Avete reso un pessimo servizio a Rousseau e a voi stessa. La solitudine completerà l’opera di annebbiamento della sua immaginazione: tutti gli amici, e voi per prima, diverranno ai suoi occhi ingiusti e ingrati”. E le sue parole furono profetiche.
Di lì a un po’ Diderot fece rappresentare una commedia in cui c’era questa battuta: “Il buono vive in società; il malvagio, da solo”. Rousseau la prese per un’allusione a lui (e probabilmente lo era), e la signora d’Epinay dovette faticare non poco per rimetter pace tra i due.
Subito dopo fu lei a dover fare i conti con la suscettibiltà dello scrittore: sua cognata si divertì a sedurre Rousseau che come al solito ci cascò. Fu un amore fatto di lettere e sospiri che non turbò Teresa ma che la d’Epinay trovò sconveniente. Così fece informare della cosa, l’amante della cognata (il marito lo aveva perso strada da un pezzo). Costui era il marchese di Saint-Lambert, che aveva portato via la signora di Chatelet a Voltaire e che evidentemente era destinato a far dispetto ai filosofi. Ne venne fuori un pasticcio di cui tutta Parigi parlò e Rousseau finì con il litigare con tutti accusandoli di complotto ai suoi danni. Alla fine del 1757 lasciò l’Ermitage e sempre in compagnia di Teresa prese in affitto un villino nelle vicinanze; in seguito ne accettò un altro offertogli gratuitamente dal Maresciallo di Luxembourg.
Volle poi rendere pubblica la sua rottura coi vecchi amici con una “Lettera al Sig. D’Alembert”, che in realtà era una dichiarazione di guerra all’Illuminismo. Più che D’Alembert i veri bersagli erano la Ragione e Voltaire.
“Ciò che la ragione può provare alla maggioranza degli uomini è solo il calcolo interessato del profitto personale” scriveva nella lettera. Quanto a Voltaire non era nominato ma Rousseau rivolgeva alla città di Ginevra un invito a impedire la nascita di un teatro di posa, il cui solo effetto sarebbe stato l’avvelenamento delle coscienze e la corruzione dei costumi. E questo proprio mentre Voltaire chiedeva ai magistrati ginevrini (che glielo rifiutarono) il permesso di inscenare le sue commedie.
“Rousseau è il Giuda della confraternita” dichiarò Voltaire.
Rousseau replicò “Vi odio, signore, perché così voi avete voluto; ma vi odio con la passione di uno che ancora potrebbe amarvi, se voi lo aveste desiderato”. Voltaire non rispose probabilmente colpito dalla disarmante sincerità di quella confessione.
I Capolavori
Da quel momento il genio di Rousseau si accese e nel giro di cinque anni, tra il 1757 e il 1762 scrisse con impeto le sue opere più grandi: “La nuova Eloisa”, “Emilio odell’Educazione”, e il “Contratto sociale”.Forse il suo culmine di scrittore lo raggiunse con le “Confessioni” che uscirono postume, ma non c’è dubbio che egli esercitò la sua enorme influenza sui contemporanei con questi tre lavori.
“La nuova Eloisa” è un romanzo e a leggerlo oggi non si capisce il clamore che provocò. Sono settecento pagine di esclamativi, di sospiri e di puntini sospensivi. Il primo bacio scocca alla novantesima. Dopo aver ceduto ai desideri dell’amante, l’eroina grida: “Sono caduta nell’abisso dell’infamia”. Eloisa sposa quindi un brav’uomo che accetta non solo la sua colpa, ma anche la perdurante assiduità del seduttore, ed ella premia il consorte di tanta condiscendenza lasciandogli in punto di morte una lettera in cui gli confessa di non averlo mai amato.
Sembra incredibile ma un racconto così prolisso e rugiadoso sollevò un grande entusiasmo in una società, come quella parigina, che dell’adulterio faceva la sua regola e che si era formata il proprio gusto letterario sulla prosa di Montaigne, Cartesio, Pascal e Voltaire.
Eppure il successo fu enorme. La tipografia non faceva in tempo a stampare le copie. Davanti alle librerie c’erano le code. Una signora che si portò il romanzo a teatro, fu trovata l’indomani nel suo palco, ancora immersa nella lettura.
I Filosofi ne erano sconcertati. L’intreccio del romanzo era banale e convenzionale; i personaggi invece che parlare predicavano; Grimm disse: “Provatevi a strizzarlo: in mano non vi resterà che un po’ di bagnato”. Ma c’erano due cose che sembrarono rivelazioni, anche se in realtà si trattava solo di riscoperte: il senso poetico della natura che gli intellettuali avevano dimenticato da un paio di secoli. Eloisa può risultare un personaggio non credibile ma gli sfondi su cui si muove, i laghi, le montagne, le foreste, sono autentici. Sono loro i veri protagonisti del romanzo e parlano un linguaggio fatto di colore e calore cui i lettori non erano più abituati; la seconda è la rivincita del sentimento dopo la lunga orgia della ragione. Il cuore riprendeva il sopravvento sul cervello, dettandogli legge. I protagonisti non fanno che piangere, di desiderio e di rimorso e questo tipo di passione drammatica non poteva passare inosservata alle donne stanche di una galanteria spregiudicata come quella settecentesca che in fondo aveva dissacrato l’amore riducendolo ad un gioco.
Eloisa era il grido di guerra del Romanticismo.
Il successo lusingò Rousseau, ma invece di approfittarne per tornare da trionfatore nella società parigina si rinchiuse ancora di più nel suo rifugio e si dedicò al “Contratto sociale”.
Le contraddizioni di questo libro sono tante. Rousseau afferma che il singolo deve sottomettersi alla volontà generale, ma cosa intenda per volontà generale, non è chiaro. In certi momenti sembra che si tratti della volontà della maggioranza e in altri, sembra che a formare questa maggioranza non siano tutti i cittadini ma solo quelli qualificati ad interpretarla. Comunque Rousseau, che nel Discorso sull’ ineguaglianza si era presentato come il padre dell’individualismo anarchico, nel Contratto sociale si trasforma nel grande paladino di una collettività socialista e affida alla volontà generale il compito di “mantenere con la forza delle legislazioni l’eguaglianza che la forza delle cose tende a distruggere”. Rousseau voleva quindi un dispostismo sia pure in nome della volontà generale. Questo regime repubblicano deve avere un fondamento religioso, e quindi chiunque non creda deve essere bandito dallo Stato e se, fingendo di credere, contravviene alle sue regole, deve essere punito con la morte.
Emilio nacque come poscritto alla Nuova Eloisa, un manuale di precetti per l’educazione del figlio dell’ eroina. È da considerarsi un testo di pedagogia e bisogna riconoscere che Rousseau scrisse un capolavoro. La tesi di fondo è sempre la stessa: l’uomo nasce libero e buono, è la società con le sue leggi sbagliate a renderlo oppressore e cattivo. L’educazione deve quindi mirare a riportarlo al suo stato naturale.
Appena nato, la levatrice non lo fasci, perché questa è già una costrizione che può condizionare tutto il suo sviluppo. E sia la madre ad allattarlo, in modo che il suo rapporto con il figlio non sia deviato da una nutrice; si dall’inizio lo si abitui ad una vita semplice e all’aria aperta, in un intimo contatto con la natura. Non c’è fretta di sviluppare il suo intelletto. Ciò che conta è il carettere. Emilio deve sapere cosa è bene e cosa è male ed è questa l’unica bussola che gli sevirà nella vita. L’intelletto è secondario anzi è meglio tenerlo lontano dagli intellettuali.
A Emilio bisogna dare un’educazione religiosa perché senza una fede in Dio non si può dare un senso alla propria vita; non si può imporre una religione in particolare perché ciò sarebbe un sopruso. Gli si può dare solo un consiglio: “Torna in patria e riprendi la religione dei tuoi padri”.
E fu proprio ciò che fece lo scrittore tornando a Ginevra e riabbracciando il calvinismo.
Altro consiglio di sapore autobiografico: Non lasciate solo Emilio né di giorno né di notte, dormite almeno nella sua stessa camera. Se sperimenta una volta il pericoloso surrogato dell’amore, è perduto.
Anche Emilio suscitò discussioni. I Filosofi ne furono disgustati per l’ostracismo che Rousseau dimostrava verso l’intelletto; madame de Stael scrisse: questa didattica spinge ogni padre a dedicare l’intera vita a suo figlio, sicchè soltanto i nonni potrebbero occuparsi della propria carriera”.
Lo stesso Rousseau si rese conto dell’inapplicabilità di alcuni suoi consigli, e quando un ammiratore gli disse che aveva educato i propri figli come lui diceva, lo scrittore rispose: Peggio per voi e per loro!
Rousseau proscritto
Le reazioni verso Emilio non si limitarono agli ambienti intellettuali. Le magistrature cattoliche di Parigi e quelle calviniste di Ginevra si trovarono d’accordo nel vedere in Emilio un attacco al Cristianesimo, e contro Rousseau fu spiccato un mandato d’arresto. Tuttavia fu eseguito con una lentezza tale da dare il tempo allo scrittore di fuggire, e qui comincia l’ultima odissea di Rousseau.
All’inizio trovò rifugio nel cantone di Berna, ma anche il Senato di questa città gli fece sapere che non gradiva la sua presenza. Voltaire fu indignato da questa persecuzione e offrì al proscritto l’ospitalità a Ferney, sebbene odiasse Rousseau e avesse definito l’Emilio “un guazzabuglio in quattro volumi scritto da una balia stupida”. Rousseau preferì appellarsi a Federico il Grande, che una volta aveva definito “un tiranno travestito da filosofo”. Ma Federico non solo lo fece accogliere a Neuchatel, ma gli concesse anche una pensione. “Dobbiamo aiutare questo povero disgraziato. Penso ch’esso abbia sbagliato vocazione: doveva fare l’anacoreta, il predicatore nel deserto…” scrisse il re di Prussia al suo fiduciario.
Ma ormai tutta la Svizzera calvinista era in subbuglio e reclamava la sua espulsione. Con la sua proverbiale malaccortezza, Rousseau aizzò Voltaire designandolo come autore di un libello anonimo che proprio in quel periodo aveva fatto scandalo per le sue eresie.
Voltaire, minacciato anche lui di proscrizione, stavolta perse il lume, giurando che avrebbe fatto bastonare l’infame calunniatore; ma quando seppe che Rousseau stava per venire a Ferney urlò: “ Che venga! Gli offrirò la cena e lo metterò nel mio letto e gli dirò: grazie d’aver accettato l’uno e l’altro”. Subito dopo scrisse una tremenda filippica contro Rousseau che nel frattempo si era ritirato sul lago di Bienne. Qui lo scrittore rischiò il linciaggio da parte della folla; fu obbligato ad andarsene e a riparare a Londra.
Anche a Londra trovò il modo di litigare con tutti, anche con il suo amico e protettore Hume che lo aveva chiamato e che Rousseau accusò di complicità ai suoi danni con Voltaire, Diderot e Grimm. La realtà è che in Inghilterra ci si trovava male: non parlava l’inglese e la gente lo corbellava per il suo bizzarro abbigliamento. Da anni portava un berretto di pelo e un caffetano rosso perché alle brache aveva dovuto rinunziare a causa del suo malanno, che lo costringeva a tenere una borsa tra le gambe.
Ad un certo punto si convinse che volevano avvelenarlo e fuggì precipitosamente con Teresa lasciando anche il bagaglio.
Gli ultimi anni
La Francia di Turgot dimenticò il mandato d’arresto che aveva spiccato contro di lui, e gli concesse asilo. Rousseau però continuò a fuggire inseguito dalle proprie paure. Vagabondò fra Lione, Grenoble e Parigi, scrivendo nel contempo le sue Confessioni.
Quando vide la trionfale accoglienza che Parigi riservò a Voltaire si ingelosì; ma quando seppe che il suo rivale era ormai in punto di morte esclamò: “ Le nostre vite erano legate l’una all’altra. La sua morte è anche la mia”. E fu profeta. Voltaire morì nel maggio del 1778, lui due mesi dopo. Anche a Rousseau fu negata la sepoltura in terra consacrata. E anche le sue spoglie furono, durante la Rivoluzione traslate nel Pantheon accanto a quelle di Voltaire.
L’eredità di Rousseau
Rispetto a Voltaire, Rousseau esercitò sui contemporanei un’influenza molto più grande e sconvolgente.
“Rousseau non ha inventato nulla, ma ha messo a fuoco tutto” diceva Madame de Stael che lo detestava. Questo tutto cominciava dal costume: grazie a Rousseau le donne di Francia e d’Europa si slacciarono busti e corsetti per vestire in maniera più semplice e naturale. Le madri, cominciarono ad allattare i propri pargoli facendo meno uso di balie. La stessa Regina di Francia, Maria Antonietta, adottò un tipo di abbigliamento più sobrio e pare avesse provato ad allattare lei stessa la sua primogenita.
Fu da Rousseau che prese il via la nuova pedagogia, basata sullo spontaneismo e sull’esperienza. Al precettore severo armato di frusta e alle lezioni ex cathedra basata sull’autorità dei testi consacrati, si sostituì il colloquio e l’esercizio delle cose. Ciò rese il rapporto insegnante-allievo molto più umano e gradevole. Senza dubbio fu Rousseau a scatenare l’ondata romantica: la rivincita del sentimento sulla ragione, del cuore sul cervello, della fantasia sulla realtà, della fede sulla scienza, della natura sulla civiltà. La passione divenne d’obbligo nei rapporti sociali. Le donne impararono a svenire, gli uomini a suicidarsi. Anche il linguaggio cambiò, diventando vibrante di sentimento.
Ma ancor più decisivo fu l’effetto che Rousseau ebbe sulla politica. Fu lui a distruggere il sogno dei Filosofi che agognavano il tentativo di adattare il vecchio regime delle monarchie assolute alle esigenze della società moderna, secondo il metodo delle riforme e senza traumi rivoluzionari. In nome di Rousseau, Robespierre instaurò uno dei più tremendi regimi polizieschi che la storia abbia conosciuto. Burke scrisse che nell’Assemblea Costituente “non si parla che di Rousseau. Lui studiano, lui meditano, lui invocano per giustificare i malanni che combinano e le orge di sangue cui si abbandonano. Ne hanno fatto la loro sacra scrittura”.
Rousseau lanciava nei suoi scritti, messaggi alla portata di tutti. Sono le istituzioni che rovinano l’uomo, diceva. Cambiate quelle e tutti i problemi saranno risolti. Ma appunto perché alla portata di tutti anche dei cervelli più rozzi, questi messaggi scatenarono le piazze.
A intuirlo per primo fu D’Alembert che nel 1762 scrisse a Voltaire: Non conviene gridare troppo forte contro Rousseau: ormai è il re delle halles. Le halles erano i mercati generali di Parigi, le grandi assise del popolino, che certo non aveva letto il Contratto Sociale, ma ne aveva afferrato i motivi dalle parole degli agitatori.
Rousseau non insisteva tanto sulla libertà quanto sulla giustizia e sulla ripartizione dei beni materiali. Voltaire si rivolgeva alla mente e alla coscienza dei lettori; Rousseau si rivolgeva al loro “stomaco” che milioni di francesi avevano vuoto. Egli sosteneva che l’uguaglianza conta più della libertà e il popolo doveva difenderla anche a costa della libertà.
Il socialismo di Marx come tutta la sociologia moderna si ispira a Rousseau anche se nelle opere dello scrittore c’è scritto tutto e il contrario di tutto. Nei suoi primi discorsi ci sono motivi individualistici in netta contrapposizione a quelli socialisti, e spinti a tali estremi di radicalismo che più tardi gli anarchici vi si riconobbero.
Per i contemporanei egli fu l’apostolo della Rivoluzione, il padre di una democrazia non meno assolutista della monarchia. Ma certamente non potè immaginare gli orrori del Terrore.
Lo stesso Rousseau si rese conto delle proprie contraddizioni: “Chi dice di avermi capito deve essere più intelligente di me”.