Introduzione
Lo scritto che segue è una riflessione sulla condizione contemporanea dell’arte e sul suo rapporto con l’avanguardia, scritto nel 1992. Quando, nel 1992, mi posi a guardare il panorama culturale italiano, non potei fare a meno di provare una strana sensazione, che provo ancora oggi, motivo per cui divulgo questo scritto: l’idea che un’èra si stava chiudendo non solo dal punto di vista storico-politico, come poi abbiamo visto, ma anche da quello culturale. Solo che non si vedeva in giro quel rinnovamento che invece c’è stato negli altri campi: un po’ perché la cultura, essendo spesso conservazione di una tradizione, è tarda ad ammettere certe novità; un po’ perché, in effetti, ancora non si intravvede chi ci porti la “parola”.
Ciò che osservavo – e osservo a tutt’oggi – è la spaccatura della cultura in due tronconi autoreferenziali: da un lato le avanguardie storiche del Novecento, vinta la loro battaglia, si sono installate nella società come arte ufficiale, pur avendo perso da tempo la loro spinta propulsiva, al punto che oggi osserviamo il ripetersi freddo di un’avanguardia rappresa in gesti di maniera. Dall’altro lato osservo un atteggiamento anacronistico del pubblico nei confronti dell’arte: fermi restando quelli che non se ne occuperebbero comunque – che nel nostro discorso non rientrano – gli altri si rifugiano nel passato, adorandolo sì ma solo in una visione nostalgica di ciò che è stato e non sarà mai più. E’ tra costoro che spesso spuntano i cultori di una poesia ermetica, intimista, o gli acquarellisti della domenica, i più un’accozzaglia di dilettanti, ma molti i talentuosi a cui manca soltanto il coraggio di lanciare la penna o il pennello contro la parete di vetro. Perciò abbiamo da una parte una modernità un tempo aggressiva, provocatoria, sconvolgente, che ora, stanca e sclerotizzata, tende a ripetere se stessa commettendo gli errori dei suoi avversari del passato, diventando vecchia, antica, sorpassata. Dall’altra abbiamo chi guarda al passato chiamandolo col suo nome, inserendosi nel solco di una tradizione vissuta come una strada senza uscita, rassegnato al predominio di un certo modo di fare arte, quella contemporanea, che accetta ma non capisce.
La verità è che un’epoca è finita: il Novecento. Era finito allora, venticinque anni fa, è finito oggi, nel 2016, e non solo per una questione di numeri. Ogni secolo ha la sua fisionomia culturale, e la fine di ogni secolo porta con sé la fine di questa fisionomia, solo che tale crisi comincia ad avvertirsi dieci o quindici anni prima e matura irreversibilmente negli ultimi anni, con un’agonia che spesso arriva a protrarsi ai primi anni del secolo seguente. Noi oggi viviamo la crisi di due modelli culturali: quello romantico-idealistico, che nonostante tutto è sopravvissuto nel XX secolo, e a cui ricondurrei i “nostalgici” di cui sopra; e quello moderno, rivoluzionario e avanguardistico, tipico del nostro secolo, che ha vinto su tutta la linea e, storditosi nella sbornia della vittoria, si è ormai addormentato.
E’ solo innestando tra loro questi due tronconi appassiti, che potrà fiorire l’arte nuova, l’arte del XXI secolo. Entrambi conservano tuttora qualcosa di fecondo: il primo l’entusiasmo lirico, il culto della bellezza, il senso dell’eternità; il secondo la modernità, la disinibizione formale, l’attitudine sperimentale. Se noi riuscissimo ad operare la quadratura del cerchio, verrebbe fuori un’arte meravigliosa, versicolore, polivalente.
Per questo ho dato un’impronta militante al mio saggio, per cominciare ad aprire la strada al futuro, sgomberandola dalle macerie del passato e, ogni tanto, fermandomi a raccattare ciò che mi poteva essere utile nel prosieguo del viaggio. Si tratta di un articolo composto in uno stile volutamente brillante, provocatorio, atto a suscitare una reazione nel pubblico. E proprio il fatto di essere destinato al pubblico ne giustifica il tono divulgativo, che non si ferma in dettagli troppo pesanti ma cerca di rendere il senso, l’idea del suo contenuto, in relazione all’epoca che stiamo vivendo oggi. Questo saggio, infatti, è scritto non come portatore di verità assolute, ma in funzione di ciò che ritengo si dovrebbe fare oggi in campo culturale, in funzione di ciò che del passato può esseci utile: pertanto le figure qui disegnate sono emblemi, più che ritratti.
Terminati i conflitti ideologici del XX secolo, gli scontri epocali tra i “massimi sistemi del mondo”, si può tornare all’idea di un’avanguardia non più necessariamente cupa, triste, impegnata, cerebrale, ma allegramente “barocca”.
E qui vengo, per finire, al motivo che mi ha spinto a scegliere il Barocco come punto d’arrivo dell’arte contemporanea. Innanzitutto come detto, per il suo scopo e per il suo stile, questo saggio è di necessità irregolare ed eccessivo e quindi barocco, secondo una delle probabili etimologie del termine. In secondo luogo, perché è proprio nel senso della fastosità formale e della spettacolarità che va ricercato il rinnovamento: in una visione caleidoscopica di luci, suoni e colori, quale la nostra epoca contemporanea possiede in gran numero. E’ questo genere di arte che alla lunga si viene progressivamente definendo nelle pagine che seguono.
Infine il barocco fu in effetti una grande rivoluzione culturale, perché seppe fondere lo sperimentalismo formale più spregiudicato alla tradizione classicista, la maniera all’innovazione, la spettacolarità al lirismo dell’io: fu una fusione delle due linee portanti dell’arte, e nello stesso tempo una terza linea, alternativa ad entrambe, una modernità che non si esaurisce e una tradizione mai oppressiva.
Oggi che siamo indecisi tra nostalgia del passato e deferente rispetto verso un presente che non ci piace più, l’età barocca ci appare come un necessario punto di riferimento. Proprio allora, quando le scoperte scientifiche sembravano aver tappato la bocca ai poeti (un po’ come oggi) questi, finalmente liberati dall’obbligo di servire dottrine religiose, filosofiche o politiche, inventarono il miracolo dell’arte-festa. E’ chiaro che non fu sempre così, ma il senso di quell’esperienza rimane questo.
L’arte divenne autonoma rispetto alla scienza: così come solo il calcolo matematico può dare la misura degli oggetti materiali (esprit geometrique), solo l’entusiasmo lirico può rendere appieno l’approccio agli oggetti letterari e artistici in genere (esprit de finesse).
Ho l’impressione che oggi, nei confronti della modernità passata o “storica” esista una adorazione ancora più morbosa di quella che un tempo era nutrita nei confronti dell’antichità. Una modernità ridotta a dogma, a puro modernariato d’arte, così come certa antichità era solo antiquariato. Si dimentica spesso che l’inizio dell’epoca moderna si fa risalire ai primi del ventesimo secolo (gli storici hanno indicato parecchie date simboliche: 1903, 1909 ecc.) e oggi siamo nel 1992 (2016). Vogliamo forse affermare che a partire dal 1900, o dal 1910, o ’20, o ’30 – ciascuno si scelga la sua data preferita – la storia è finita, si possono solo adorare gli ultimi movimenti artistici sopravvenuti; che il trionfo della modernità ha come ineludibile conseguenza la eterna, infinita, destinata a durare per sempre, sua “passatistica” adorazione? E noi perché ci diciamo moderni, perché ci vogliamo confondere con le schiere di adoratori passivi di un’epoca passata che ha l’arroganza, che nemmeno i Greci o i Romani o gli Umanisti hanno mai avuto, di definirsi “moderna” per sempre?
Il concetto stesso di modernità è tra i più fragili: tutti sono moderni nella loro epoca, tutte le epoche, rispetto a se stesse, sono moderne. Ma tutte le epoche, rispetto a quelle seguenti, sono antiche. Le avanguardie storiche sono state definite per l’appunto storiche, in quanto passate, chiuse, finite. Il termine “avanguardia storica” viene così a costituire un evidente ossimoro: se un’avanguardia è storica, allora non è più un’avanguardia. E’ un discorso lapalissiano, banale, ma che va comunque fatto.
Così, se essere moderni vuol dire andare avanti nella propria epoca rispetto all’immediato passato, non ne può non conseguire il rigetto della modernità storica. Non solo: la liberazione dall’ombra del passato prossimo (troppo piccolo il pericolo di un’ombra del passato remoto, le cui piante sono lontane per gettarcela addosso) impone lo sfrondamento, quando non l’abbattimento, di certa vegetazione novecentista.
Il XX secolo ha visto l’arte svuotarsi progressivamente di ogni contenuto, e ricercare continuamente in modo ripetuto ed ossessivo uno sperimentalismo tecnico spesso vuoto e fine a se stesso, assunto ad unico valore artistico e celebrato come unico contenuto ideale. Se prima la forma era il contenuto, e il contenuto era la forma, poiché il contenuto di un’opera assumeva dall’interno, nel suo forgiarsi, la forma che l’artefice le dava, così che tra i due elementi non esisteva contraddizione, e la differenza era puramente scolastica in quanto tratta a posteriori (insomma bisognava andare a cercare); nel Novecento si è determinato uno stacco tra forma fine a se stessa (questo vale sia per le avanguardie he per i tentativi restauratori che di quelle sono un’emanazione per contrasto) e un contenuto che è pura critica, che per essere còlto necessita di un esperto che lo interpreti.
Così abbiamo oggi, a grandi linee, due “scuole” principali o, meglio, due modi di intendere la cultura: uno sperimentalismo vuoto e fine a se stesso, compreso solo dagli addetti ai lavori, e un provincialismo retorico e di maniera, che quando riesce a sollevarsi a una certa apprezzabile dignità è annoverabile a malapena tra i pallidi prosecutori dell’Arcadia. In entrambi i casi viene abolita la comunicazione col pubblico, per eccesso o per difetto: nel senso che vi è una comunicazione elitaria, una sorta di nuovo petrarchismo, che sublima all’estremo il linguaggio; ed una comunicazione accademicamente avanguardistica che, smontando il linguaggio, non fa che proporre all’esterno i risultati di questo smontaggio, vale a dire i pezzi inerti e privi di vita. La prima è solo forma (in quanto manierismo), la seconda, in nome del contenuto, si accanisce sulla compiaciuta distruzione della forma, finendo col privilegiare questa e dimenticare quello.
Che cosa deve fare, a questo punto, l’artista di oggi? La risposta è fin troppo semplice: sanare il tremendo divario che si è aperto tra forma e sostanza, segno e colore, messaggio e stile, simbolo di una spaccatura ancora più grave, quella tra artista e pubblico, spaccatura che non ha più senso continuare a perpetrare, ammesso che l’abbia mai avuto.
Recuperare il rapporto mondo-cultura, o tra l’artistico e il reale, è quindi la cosa prioritaria tra tutte, in quanto la cultura affonda le sue radici nel mondo che la circonda e l’artistico non è altro che la trasfigurazione del reale. Come fa l’arte a sopravvivere, se intende cibarsi solo di se stessa e non, invece, assumere linfa vitale dalla società in cui nasce e di cui, in fin dei conti, è espressione? L’effetto paradossale della sistematica, insistita polemica nei confronti del mondo è l’isolamento dell’arte, e conseguentemente dell’artista, da questo. Nello stesso tempo il reale, privato di uno specchio deformante che assuma il ruolo di ideale punto di riferimento sia etico che estetico, il reale, dicevamo, stagna su se stesso e inevitabilmente decade. Conseguenza gravissima di tutto ciò è l’acuirsi della reciproca diffidenza tra mondo reale e mondo della cultura, tra vita ed arte, che a sua volta aumenta detta spaccatura in una spirale perversa che gira sempre più vorticosamente come un cane che voglia mordersi la coda.
Un certo tipo di provocazioni avanguardistiche ha fatto il suo tempo, in quanto il pubblico non è più recettivo di fronte a certe boutade. Una pernacchia fatta la prima volta fa ridere, la seconda diverte, la terza comincia ad annoiare, dopo non fa più notizia e passa addirittura inosservata. Cercare di aumentare il grado di provocazione è come stringere più forte un rubinetto che perda: la prossima volta si dovrà stringere ancora più forte, e di questo passo non si riuscirà più a chiuderlo bene e ad impedire che goccioli, e nemmeno si riuscirà più ad aprirlo, tanto forte è chiuso. Si fa prima a cambiare la guarnizione.
E’ diffusa tra molti una gran voglia di arte e sarebbe stupido non gettare un ponte a tanta attesa. L’espressione artistica è una forma di comunicazione e continuare a rinunciare a comunicare col pubblico sarebbe una contraddizione in termini oltre che un atto suicida, per l’uomo di cultura come per la cultura stessa.
E’ importantissimo puntare su ciò che hanno in comune l’artistico e il reale: se l’arte è il regno dell’estetico, il mondo è il regno del sensibile; in questo senso l’arte è parte integrante del mondo in quanto ne privilegia alcuni sensi – soprattutto la vista e l’udito. In entrambi i casi si dà grandissimo risalto al mondo del sensibile, dell’evidente, dell’immediato, in quanto è l’immediatezza sensibile delle cose – nella vita – e dell’opera – nell’arte che ci parla delle cose e ell’opera.
Così stando la questione, è chiaro che il dualismo arte-vita non esiste. Esiste invece un progressivo sfumarsi, o liquefarsi, della bellezza sino a pervenire a quel grumo di bellezza rappresa che è l’arte, la quale a sua volta sparpagliandosi nel mondo dà vita alla bellezza. Non vi è, in fin dei conti, poi molta differenza tra una bella cravatta, una bella spilla o un bel quadro: sono solamente tre forme rappresentanti tre diversi livelli di apparizione, di epifania dell’evidente estetico. Né l’una può stare senza l’altra: è per questo che l’abbandono dell’evidenza sensibile e comunicativa per privilegiare il concetto (il mondo del logico, del nascosto e del mediato) nell’agire artistico di questo secolo ha portato ad un rifiuto dell’opera d’arte, ma non dell’arte in genere, bensì di quel modo di concepirla.
Riproporre la sensibilità visiva e sonora dell’opera è quindi fondamentale. Dopo l’arte psicologica e cerebrale del XX secolo, riproponiamo per il XXI secolo un’arte fisica, sensuale ed orgiastica: la riscoperta della fisicità come luogo di arte, dell’arte come bellezza, e della bellezza come arte sparpagliata nel mondo.
La comunicazione visiva dell’opera saputa rendere ai massimi livelli trasforma il visivo in visione di modo chè comunica dal profondo e quindi anche ciò che è nascosto, senza bisogno di smontare l’opera.
Se l’arte torna ad essere il dominio dell’evidente, e se la bellezza è arte sparpagliata, non si può non fare un cenno sull’ “oggettività poetica”: sappiamo che l’artista trasfigura la realtà, è quindi uno specchio deformante. Ma, come già detto, spesso la bellezza è arte diluita nel mondo. Ne deriva un curioso paradosso: vi sono oggetti che paiono trasfigurare se stessi ed assurgere a “operette d’arte”. L’artista può, volendo, costruire egli questi oggetti. Anche perché è un interprete soggettivo di un oggetto – la realtà – che interpretata figlia se stessa fino a dar vita ad un altro oggetto: l’opera d’arte.
Per quanto riguarda la letteratura, è importante che questa riscopra se stessa, la sonorità che le è propria: perciò occorre tornare al ritmo, ad una sapiente orchestrazione di pause ed accenti, che colleghino la musicalità delle parole a immagini quanto più possibile bizzarre, curiose, sontuose, proprio lì dove il lettore meno se l’aspetta. Per far ciò, si estenda il concetto di callida iunctura: non più soltanto l’accostamento insolito di un sostantivo con un aggettivo, ma l’accostamento di un fatto strano in un contesto normale, o viceversa, sottolineato da una sonorità ridondante fatta di allitterazioni, anafore e assonanze accompagnate da una declamazione adatta; il tutto senza perdere il patrimonio della iunctura più tradizionale, al cui scopo si piegano benissimo arcaismi, neologismi, parole strane accostate tra loro o messe singolarmente in un contesto che le faccia risaltare.
Siccome si attuerà questo metodo per stupire, affascinare il lettore, non si dovrà cadere nell’inutilmente balzano o andare oltre il livello di una “cacofonia elegante”: il linguaggio dev’essere ricco, non oscuro, altrimenti si ricade nell’ermetismo e in tutti gli altri difetti dell’avanguardia novecentesca. Si dovrà far ciò in un modo non dissonante, come una callida iunctura appunto, rendendo meglio di qualsiasi contenuto concettuale l’atmosfera del brano letterario, un’atmosfera sensibile, sonora, olfattiva, di sapori e tattile.
Per arrivare a rendere tutto questo, i letterati dovranno per qualche tempo esercitarsi nella poesia tradizionale, perché solo la ginnastica dei metri, dei ritmi, degli enjambements ecc. è la palestra ideale per temprare lo stile. Massima libertà sì, ma dentro il ristretto perimetro dell’arena poetica. Solo quando lo scrittore avrà in questo modo reso musicale ed elegante il suo stile, al punto che le sue parole danzino spontaneamente sulla carta, solo allora potrà prodigarsi nella prosa.
Avremo così finalmente una generazione di prosatori dallo stile colorato e armonico, dopo tanta sciatteria giornalistica. Ritengo che troppa libertà faccia male alla letteratura, poiché tutti sono capaci di accumulare stranezze su stranezze in modo casuale e sgraziato, ma pochi sono coloro che le sanno abbinare in modo davvero efficace. Prendete ad esempio un uomo che, per il gusto dell’originalità, indossi scarpe gialle, calzini neri, pantaloni rossi, giacca verde e camicia viola: costui non è moderno, è semplicemente un cretino. Ma ci sono persone che riescono ad accostare i colori più improprii in modo proprio. Questi sono gli artisti. E’ la potenza dello stile che armonizza i contrasti, e tanto è più grande lo stile quanto più forti sono i contrasti che passano sotto il giogo dell’artista, quanto più arduo ed entusiasmante è il collegamento tra due termini o concetti sperduti nell’infinità dell’universo poetico. E’ in questo modo che il linguaggio attua un corto circuito.
Così l’analogia predicata dai futuristi ad inizio secolo, perso il suo slancio provocatorio e dissacrante, anche perché non più necessario, recupera il suo carattere originario, sensuoso e fastoso, diventando metafora barocca.
Dopo la ricognizione azzardata dall’avanguardia, che ha sgomberato il terreno dai ruderi del passato, giungono le colonne festanti del Parnaso in rivolta, la retroguardia dell’armata di Dioniso che, tornando dall’India conquistata, festeggia la battaglia vinta con un’orgia di parole, suoni e colori. Sconfitti i dogmi della Poetica di Aristotele e del Realismo, è ora di deporre le armi e recuperare il primigenio valore dell’arte-festa, senza più nessuno scrupolo morale o contenutistico, né quelli che si opponevano, né quelli che servivano ad abbattere i primi.
Quindi più nessuna preoccupazione di apparire a tutti i costi moderni o rispettosi della tradizione: sono problemi superati. Rotto ogni steccato, il poeta del Duemila può saltare giocosamente da un repertorio all’altro, prendere ciò che gli piace, lasciare ciò che non gli piace. Da Marinetti a Marino: in fondo il passo non è poi tanto lungo!
E’ dell’arte il fin la meraviglia
Chi non sa far stupir vada alla striglia.
G. B. Marino