La situazione sanitaria nel Seicento non era particolarmente felice. Le cronache di allora parlano di misteriose epidemie, febbri maligne improvvise e vaiolo. La peste esplodeva periodicamente, provocando vittime a migliaia. La malaria, che imperversava particolarmente nelle campagne, assediava alle volte anche le città. La medicina non era in grado di contrastare e vincere queste epidemie, di cui non si conosceva né l’origine né la causa.
Nelle città non mancavano, tuttavia, ospedali efficienti in grado di fornire ai malati un’assistenza adeguata. John Evelyn visitò nel 1645 l’ospedale romano del S. Spirito, e rimase particolarmente colpito dalla funzionalità e dall’efficienza di questa struttura: Le corsie per i malati hanno il pavimento di marmo di vari colori e alle pareti sono appesi pregevoli quadri. Al centro c’è una maestosa cupola, sotto la quale si erge un altare, ornato di sculture, disposto in modo che tutti i malati dai loro letti possano vederlo e ascoltare messa, che vi si celebra. Un’immensa sala accoglie circa mille letti; dietro a questa c’è un ampio corridoio, usato per vari servizi prestati ai pazienti: i servizi vengono prodigati con una diligenza, con un garbo, con una pulizia quale non si potrebbe desiderare di meglio, essendo in genere gli italiani assai puliti. Sotto il portico possono scendere e passeggiare i convalescenti. Di fronte al portico vi sono alcune camere isolate per i malati più gravi, che hanno necessità di particolari cure. In fondo al corridoio una farmacia abbondantemente fornita e accanto ad essa alcune camere destinate ai malati di più elevata condizione sociale. Non tutti gli ospedali erano ovviamente così efficienti e così ben tenuti.
Nell’assistenza ai malati un contributo rilevante era fornito dai religiosi: la beatitudine consiste nel morire tra i malati, per i malati. Durante la peste che colpì Roma nel 1656-1657, su cento religiosi che assistettero i malati ne sopravvissero solo cinque.
All’epoca non mancavano medici preparati e scrupolosi, ma si rimane perplessi di fronte alle cure e ai rimedi. Per l’idropisia esisteva per esempio un farmaco misterioso, contenuto in sei vasetti, che il paziente doveva assumere per sei giorni; un altro rimedio contro lo stesso male consisteva in sei once di urina umana da assumere a digiuno la mattina. Ancora più difficile era curare l’ipocondria, un male oscuro che spesso veniva associato alla “malinconia”: si trattava di ciò che oggi chiamiamo depressione e che non risparmiava artisti famosi come Annibale Carracci e Francesco Borromini.
I rimedi degli speziali erano a dir poco inutili. Esisteva ad esempio la teriaca, un farmaco misterioso, usato contro una vasta gamma di mali. Veniva preparato con numerosi ingredienti, circa sessanta, tra cui il veleno di vipera e la loro pelle essiccata, vino e miele.
Contro i bubboni della peste si utilizzava una mistura di “cipolle cotte nel butirro (burro) e fichi secchi aggiontivi” da applicare calda sulla zona da curare. Per i “carboni” della peste la mistura era più elaborata: “lumache grosse con il guscio si pestino sottilmente e per ogni 4 oncie di dette un’oncia di songia di porco, farina, e zaffrano, si mescoli ogni cosa insieme e si applichi sopra il male.”
Accanto alla farmacopea ufficiale come “l’acqua del quercetano”, la “quintessenza di perle”, l’ “empiastro di granchi di fiume”, vi erano i rimedi proposti dai ciarlatani, che reclamizzavano i loro prodotti in piazza o nei vicoli: c’era il “balsamo del samaritano”, il “rosolio stomatico”, ecc..
Un illustre viaggiatore francese, Monsieur de Monconys, aveva raccolto decine di questi rimedi improbabili e aveva pubblicato nel 1666 le ricette a beneficio dei curiosi.
Per i malati di lebbra e di mal di Napoli ( come i francesi definivano la sifilide), nella zona di Civitavecchia si ricorreva ad un rimedio particolarmente “valido”: questi disperati coperti di piaghe, devastanti e ulcerose, venivano condotti sulle alture della Tolfa, dove si aprivano misteriose caverne. Qui venivano spogliati e addormentati con una massiccia dose di oppio. Richiamati dal lezzo delle ferite, i serpenti uscivano dalle loro tane e si avvicinavano al paziente; iniziavano quindi a leccarne le piaghe. A lavoro ultimato, i serpenti soddisfatti e pasciuti si ritiravano nelle loro dimore. Il malato veniva quindi riportato alla luce, perfettamente guarito.
Se nessun rimedio risolveva il problema c’era comunque la possibilità di rivolgersi ai santi: S. Rocco teneva lontana la peste, S. Liborio proteggeva la vescica, S. Biagio la gola; per ogni male c’era un santo protettore. C’era anche chi si rivolgeva a persone dotate di poteri particolari. Ad Alvito, un paesino della Ciociaria, c’era una bimba che fin dalla nascita aveva il palato segnato da una croce, a quanto pare miracolosa, chiamata la croce di Caravacca. La saliva della fanciulla era miracolosa ed in grado di guarire mali di diverso genere.
Fra tante ricette curiose, c’era anche quella per vivere a lungo. Sperimentata anche dalla regina Cristina di Svezia, nei suoi laboratori di palazzo Riario, a Roma, la ricetta/elisir avrebbe dovuto consentire di vivere fino a cento anni. La regina volle inoltre provare il segreto rimedio suggerito nel “Mercurio Galante”, un famoso periodico francese del tempo; il rimedio l’avrebbe condotta alla tomba se non fosse stata soccorsa per tempo. Malgrado questa esperienza negativa, Cristina continuò nelle sue ricerche, dedicandosi anche alla ricerca della Pietra Filosofale, da sempre chiodo fisso di qualsiasi alchimista; la Pietra Filosofale avrebbe potuto trasformare in oro anche il più vile dei metalli.
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