Sono numerose le opere di Caravaggio arrivate fino a noi nelle quali il pittore inserisce autoritratti, come protagonista o personaggio secondario, rivestendo ruoli allegorici che ci raccontano molto della sua vera natura e ci aiutano a far luce su aspetti ancora nascosti della sua biografia e del suo carattere complicato.
La critica non è in accordo su alcuni di questi dipinti, nei quali la presenza del pittore non è documentabile in modo certo, mentre su molti altri (in gran parte contenuti in questo elenco) le fattezze di Michelangelo Merisi sono inequivocabili.
Bacchino malato
Bacchino malato, 1593, olio su tela, 67 cm × 53 cm, Roma, Galleria Borghese
E' un opera giovanile, realizzata quasi sicuramente nella bottega di Giuseppe Cesari, noto a Roma come il Cavaliere d'Arpino. Caravaggio non è ancora un pittore affermato e realizza nature morte o soggetti di “maniera” o religiosi su commissione degli artisti più noti del tempo.
Sappiamo per certo che il volto del Bacco è quello dello stesso Michelangelo Merisi, che si ritrasse allo specchio. In quel periodo l'artista “fu assalito da una grave malatia che, trovandolo senza denari, fu necessitato andarsene allo Spedal della Consolazione" (Baglione), altri invece attribuiscono la sua indisposizione al calcio di un cavallo: il pessimo stato di salute di Caravaggio sarebbe ravvisabile nel colorito verdastro del Bacco, detto appunto “malato”. Lo studioso Maurizio Marini imputa invece il colore malsano dell'incarnato ad un restauro del passato mal eseguito.
Concerto
Concerto, 1595, olio su tela, 87,9 cm × 115,9 cm,New York, Metropolitan Museum of Art
Sullo sfondo del dipinto appare un volto del tutto sovrapponibile a quello del Bacchino Malato:è ancora una volta quello di Caravaggio che, pur avendo all'epoca ha 23 o 24 anni, si ritrae ringiovanendo i suoi lineamenti per omogeneità con quelli degli altri personaggi del quadro.
O forse sarebbe più corretto dire dell'altro personaggio, dato che sia l'Eros alato sulla sinistra sia il suonatore di liuto dall'espressione commossa hanno le fattezze di Mario Minniti, amico e modello preferito di Michelangelo.
Mario ha 6 anni in meno del pittore: orfano, è fuggito dalla Sicilia a Roma, dove aspira anche lui alla carriera di pittore. Stringe amicizia con Caravaggio nella bottega del Cavaliere d'Arpino: entrambi hanno natura turbolenta e odiano il lavoro accademico di apprendista.
Abiteranno per molto tempo insieme in una stanza del palazzo di Monsignor Petrignani, dove il Merisi realizzerà numerosi quadri: in 8 di questi utilizzerà Mario come modello, ritraendolo anche più volte nella stessa tela, come nel caso del Concerto e de I Bari.
Martirio di San Matteo
Martirio di San Matteo, 1599c., olio su tela, 323 cm × 343 cm, Roma, San Luigi dei Francesi
Chissà quante volte sarà capitato al pittore di assistere ad aggressioni e assassini nei vicoli più sordidi e nei quartieri più violenti della Roma del Seicento, capitale del mondo barocco che coniugava magnificenza e miseria, il massimo fasto e il degrado più assoluto.
E in questa tela Caravaggio si rappresenta proprio così, come un osservatore casuale sullo sfondo di un brutale omicidio di strada: se non fosse per l'angelo che prontamente offre al santo la palma del martirio nel momento stesso in cui sta per essere trafitto, la morte di San Matteo sarebbe simile a quella di tanti altri, accoltellati con una spada assolutamente coeva a Caravaggio per una moneta (o molto meno) nel rione Monti.
Anche gli spettatori sono abbigliati alla foggia secentesca e nulla nella scena ci suggerisce un'ambientazione antica: l'azione appartiene in tutto e per tutto alla quotidianità di Caravaggio e del suo amico Mario, presente anche lui sulla tela nelle fattezze del ragazzo con il berretto piumato che, nell'allontanarsi cautamente dalla scena del delitto, getta un ultimo sguardo incuriosito sull'assassinio che sta per compiersi.
Una sorta di abitudine alla violenza, di voyeurismo quasi compiaciuto che non desta né scandalo né scalpore, quello dei due amici turbolenti Michelangelo e Mario, immersi giornalmente in una realtà e in un'epoca in cui il rispetto per la vita, la sicurezza personale, la protezione del più debole e la solidarietà sono valori lontanissimi e ancora tutti da costruire. Tuttavia, la scelta di rappresentare un martirio come un accoltellamento nei bassifondi romani è ben lungi dall'essere una mancanza di rispetto verso la natura sacra del tema, ma sposa in pieno i dettami della Chiesa della Controriforma, secondo la quale i fedeli devono sentirsi il più possibile vicini ai santi e identificarsi con loro.
Giuditta e Oloferne
Giuditta e Oloferne, 1599, olio su tela, 145 cm × 195 cm, Roma, Galleria nazionale di arte antica
In questo quadro è rappresentato l'episodio biblico nel quale la vedova ebrea Giuditta decapita il generale assiro Oloferne per liberare il suo popolo dalla dominazione straniera: un soggetto di “maniera”, proposto da moltissimi pittori dell'antichità.
Ma ancora una volta Caravaggio strappa la scena alla Palestina pre-cristiana per proiettarla nella Roma del XVII secolo, nella sua quotidianità: il volto di Giuditta è quello di Fillide Melandroni, una giovane prostituta che frequentava le residenze di cardinali e personalità romane, compresa quella del banchiere Vincenzo Giustiniani, grande mecenate del Merisi.
E' probabilmente a casa sua che il pittore conosce Fillide, rimanendone rapito; esegue anche un ritratto della ragazza su commissione di Giustiniani ma non si limita ad incontrarla per le pose.
Inizia a frequentarla a casa sua e nelle taverne e con tutta probabilità se ne invaghisce.
Questa frequentazione non è vista di buon occhio da quello che viene considerato il suo amico, amante e protettore, Ranuccio Tomassoni: questi continuerà ad osteggiare Caravaggio e a perseguitarlo fino a quella drammatica giornata del maggio 1606, nella quale l'artista sfogherà tutto il livore covato verso Ranuccio in un'aggressione durante una partita di pallacorda, provocandone la morte.
Il fatto che Caravaggio si dipinga nel ruolo di Oloferne, che viene decapitato da Fillide, appare come una triste e macabra profezia degli eventi successivi di 7 anni: Michelangelo si sente già del tutto preda di Fillide, che può disporre di lui come vuole; nella tela è vittima simbolica di lei ma il pittore forse presagisce già a quale punto di non ritorno lo condurranno il malsano interesse per la cortigiana e la sua natura aggressiva. Questa decapitazione di sé stesso anticipa la serie di autoritratti in teste mozzate che seguiranno la condanna a morte del 1606 per l'omicidio del Tomassoni.
Per saperne di più sull'opera Giuditta e Oloferne leggi qui
Cattura di Cristo
Cattura di Cristo, 1602, olio su tela, 133,5 cm x 169,5 cm, Dublino, National Gallery of Ireland
Potremmo definire questa tela un Caravaggio ritrovato: è infatti stato rinvenuto e attribuito al Merisi da Sergio Benedetti in un recentissimo passato. E' infatti entrato nel catalogo ufficiale delle opere caravaggesche solo nel 1990.
Anche in questa tela sono presenti le fattezze di Caravaggio, nelle sembianze di un osservatore occasionale della scena, un viandante con una lanterna che si trova casualmente ad incrociare la strada di Cristo nel momento culminante della sua vita terrena, il momento in cui si compie il senso della sua incarnazione umana e inizia la Passione che lo condurrà al suo sacrificio.
Non sappiamo se il viandante-Caravaggio solleva la lanterna e si accalca contro i legionari che si apprestano ad arrestare Gesù per curiosità o per la consapevolezza di essere privilegiato spettatore di un momento che cambierà per sempre la storia dell'umanità: l'espressione è attenta, tesa, stupita, quasi fosse in trepida attesa di fare vera “luce”sulla natura di questo personaggio ambiguo che, proclamandosi figlio di Dio, ha dato speranza a tanti miseri (come Caravaggio) e promette con la sua morte di riscattare ogni uomo dal peccato e dalla sofferenza. Nessuno più di Michelangelo aveva bisogno di sapere se queste promesse potevano essere vere anche per lui, di gettare luce sulla possibilità di essere salvato nonostante la sua natura.
Gli autoritratti di Caravaggio in veste di Golia
Davide e Golia, 1606, olio su tela (cm. 110x91), Madrid, museo del Prado
Davide con la testa di Golia, 1607, 2°vers., Vienna, Kunsthistorisches museum
Per l'uccisione di Ranuccio Tomassoni Caravaggio viene condannato a morte per decapitazione:chiunque lo riconosca può eseguire la condanna e riceverà per questo anche un premio in denaro.
Sulla testa del pittore pende una vera e propria taglia: troppo rischioso per lui rimanere a Roma, dove era ormai un personaggio in vista; inizia per Caravaggio un periodo di dolorose peregrinazioni che lo porteranno a Napoli, a Malta e in Sicilia, anni nei quali l'artista diventerà sempre più angosciato e paranoico, scorgendo pericoli e minacce in ogni angolo e cercando, spesso invano, serenità economica e protezione da mecenati locali.
Questa sensazione di essere già un “dead man walking” si ravvisa bene nella serie di ben sei teste mozzate a cui il Merisi conferisce i suoi tratti somatici, in tele dipinte dal 1606 al 1607.
Troviamo infatti autoritratti di Caravaggio nell'opera che mostra la lotta tra Davide e Golia e in quella che mostra la successiva decapitazione da parte dell'eroe ebreo. Al Golia-Caravaggio si contrappone in entrambi i casi un Davide dalle fattezze di Cecco Boneri, amico, allievo e forse amante di Michelangelo.
Cecco sembra comparire in ben 12 dipinti del Caravaggio, posando per lui sin da fanciullo e dando il suo volto, tra gli altri, all'Amor Vincitore (Amor Vincit Omnia), un cupido iper-realista che ha ben poco a che fare con le visioni idealizzate dell'Eros classico, biondo, efebico, con incarnato candido ed ali di cigno.
Nell'Amor Vincitore, come in altre tele in cui Cecco è presente, il ragazzo è rappresentato come un vigoroso garzone, rustico ma al tempo stesso lascivo: la tensione erotica che trasuda dal suo nudo come dalle espressioni sognanti degli angeli che accompagnano San Matteo come dalla smorfia dolorosa di Isacco spinto dal padre sull'altare sacrificale sono per più di un critico un segnale di un interesse morboso di Caravaggio per il suo apprendista: molti teorizzano che il pittore abbia abusato del ragazzo fin dalla più tenera età e poi per tutto il tempo in cui convissero insieme a Roma.
Non è un caso che la prima decapitazione pittorica in cui Caravaggio inserisce un autoritratto è simbolicamente operata da Cecco, una persona a lui molto vicina e affettivamente importante che è costretto a lasciare a Roma dopo la condanna.
La tela del 1607 è inoltre legata ad un'altra macabra leggenda: i suoi primi possessori furono infatti decapitati. Il dipinto fu acquistato a Napoli tra il 1611 e il 1617 dal Conte di Villamediana, che lo portò con sé a Madrid, dove fu sgozzato nel 1622.
L'anno seguente il dipinto fu acquistato dal principe di Galles, futuro Carlo I, decapitato nel 1649.
Autoritratti di Caravaggio in veste di Giovanni Battista
Salomè con la testa del Battista, 1607, olio su tela, 91 cm × 106 cm, Londra, National Gallery
Caravaggio si ritrae nella testa del Battista, portata sul bacile da una Salomè distratta, che non degna neppure di uno sguardo il santo mutilato a morte.
Decollazione di San Giovanni Battista, 1608, olio su tela, 361 cm × 520 cm, La Valletta, Concattedrale di San Giovanni
Caravaggio eseguì questo ritratto a Malta, dove aveva trovato rifugio dopo essere fuggito da Napoli presso Alof, il Gran Maestro dell'Ordine del Cavalierato maltese.
Qui, per intercessione del suo mecenate, gli furono commissionate diverse opere: la Decollazione del Battista fu dipinta da Michelangelo per conto della Compagnia della Misericordia poco dopo la sua investitura a Cavaliere di Grazia.
Per rispetto a questa somma onorificenza ricevuta, l'artista si firmò "F(rà) Michelangelo" con il suo stesso sangue. Fu la prima e l'ultima opera firmata da Caravaggio, che in questa tela inserisce il suo mecenate nel ruolo del carceriere e si ritrae ancora una volta nel Battista che muore decapitato.
Il sangue dipinto, che con anatomico realismo schizza copioso e potente dal collo del santo, quasi si fonde con il vero sangue di Caravaggio, che si firma proprio sotto: il pittore, nonostante gli onori ricevuti a Malta, si sente in tutto e per tutto perseguitato, martire, vittima sacrificale.
Quando poco dopo cadrà in disgrazia anche presso Alof e fuggirà da Malta, la bolla di espulsione dall'ordine dei Cavalieri di Malta sarà letta proprio davanti a questo quadro.
Salomè con la testa di S.Giovanni Battista c.1609 olio su tela. Madrid, pal. Reale
Davide con la testa di Golia
Davide con la testa di Golia, 1610, Roma, Galleria Borghese
E' forse l'autoritratto più iper-realista che Caravaggio fece di sé: si vedono bene i denti rovinati, la barba e i capelli lunghi che da fuggiasco non riusciva più a tosare con regolarità, lo sfregio in piena fronte rimediato da poco in una zuffa a Napoli, l'espressione sconvolta di un povero diavolo ormai stremato dalle drammatiche vicende di una vita turbolenta e sfortunata.
Ancora una volta in Davide si nasconde Cecco, l'amico-apprendista di Caravaggio, che ormai ha 17 anni: alcuni critici sono concordi sul fatto che il garzone abbia lasciato Roma per raggiungere il suo Maestro, nascosto nei possedimenti dei Colonna. In effetti il modello preferito è ritratto dal pittore con grande accuratezza e non con l'approssimazione di chi deve ricordare un corpo senza poterlo osservare. Inoltre sulla tela sono presenti numerose incisioni preparatorie, abbondanti sulle tele giovanili con soggetti dipinti dal vero ma quasi assenti nelle tele della maturità, spesso realizzate dal pittore senza poter disporre di nessun modello e di nessuna ambientazione in “studio”.
Martirio di sant'Orsola
Martirio di sant'Orsola, 1610, Napoli, Palazzo Zevallos
E' l'ultima opera conosciuta di Caravaggio e rappresenta in modo vivido e dinamico il momento in cui la santa subisce il martirio per mano di Attila, re degli Unni, per non essersi voluta concedere alle sue grazie. La scena si svolge al chiuso della tenda del sovrano, che ha appena scagliato la freccia nel petto della giovane cristiana. Tutto è avvenuto da un istante ma, mentre il colorito di Orsola già impallidisce, sul volto di Attila prende forma lo sgomento, il pentimento, il terrore di chi realizza di aver compiuto la più grande delle ingiustizie, che lo condannerà alla dannazione eterna. Dietro ai due barbari che sorreggono Orsola si sporge un Caravaggio incredulo, con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati, ancora e per l'utlima volta osservatore inerme di una tragedia dell'Uomo, guidato dall'egoismo e dalle passioni piuttosto che dalla temperanza e dalla Virtù.
Per approfondire il Martirio di sant'Orsola leggi Il martirio di Sant'Orsola di Caravaggio
L'omaggio di Rubens a Caravaggio
La testa mozzata di Caravaggio appare ancora un volta in una tela, ma questa volta non dipinta dallo stesso Michelangelo: la ritroviamo ne Il festino di Erode del 1633 di Peter Paul Rubens.
Il pittore fiammingo si era recato a Roma, come tanti giovani artisti del suo tempo, per imparare la pittura dai grandi maestri del passato e non devono essergli passate inosservate alcune tele di Caravaggio, al tempo ancora celebrato ed apprezzato, nelle quali si era ritratto in forma di testa mozzata.
L'omaggio di Rubens testimonia una stagione, durata di certo fino almeno alla metà del '600, nella quale Cravaggio era considerato ancora paradigma e pietra angolare di una pittura di qualità, prima di cadere nell'oblio e nella critica di uno stile che lo avrebbe giudicato affettato e persino kitsch.
Bibliografia
Baglione G. (1642). Le vite dei pittori, scultori et architettori. Vita di Michelangiolo da Caravaggio
Bellori G.P. (1672). Le vite dè pittori, scultori et architetti moderni. Michelangiolo da Caravaggio
V. Pacelli G.Forgione (2012) Caravaggio tra arte e scienza, ed. Paparo
Berti L. Lussana P. Magherini G. (2004). Richiamandoci il Caravaggio felice: l'apoteosi sua contemporanea e quella odierna Nicomp Laboratorio Ed. Firenze