Il termine “neobarocco” non fu usato per la prima volta da Omar Calabrese ma è con lui che assunse notorietà, grazie a un fortunato saggio del 1987, L’età neobarocca. Calabrese è stato esperto di semiotica e arti visive insegnando presso molte università italiane, europee e statunitensi. Nato a Firenze nel 1949, è morto relativamente giovane nel 2012, quando si apprestava a terminare il suo terzo libro sul neobarocco, di cui sono rimasti carte e appunti, pubblicati postumi nel 2013 insieme agli altri due in un volume miscellaneo a cura di Umberto Eco e dal titolo Il Neobarocco. Forma e dinamiche della cultura contemporanea; libro nella cui copertina campeggia il suo ritratto-caricatura eseguito da Fabio De Poli nel 2012, con tanto di sigaretta carismatica accesa che rimanda inevitabilmente al ritratto di Marinetti eseguito da Carrà nel 1911.
Venendo ai saggi, partiamo dal primo. In esso Calabrese afferma che i vari campi del sapere e i comportamenti umani sono pervasi da uno spirito comune, un gusto neobarocco appunto. Egli giunge a questa conclusione partendo da una domanda: esiste e, se esiste, qual è il gusto predominante della nostra epoca, così apparentemente confusa, caotica, frammentata e indecifrabile? Domanda che richiede una risposta, al fine di smettere di rinunciare a comprendere la nostra epoca e al fine di uscire dal non-senso dell’età della chiacchiera. Secondo il critico c’è una relazione tra i mostri del cinema e le teorie scientifiche più recenti, tra le opere d’arte e le nuove filosofie, tra le telenovele e i romanzi d’autore più celebrati: e tale relazione è il comune gusto neobarocco, appunto.
Calabrese esemplifica quindi le caratteristiche generali che ritiene barocche e le rintraccia nelle opere d’arte alte e di consumo dei giorni nostri, cercandole in D’Ors, Wolfflin, Sarduy e altri e rinvenendole nei prodotti culturali più assurdi e improbabili. All’inizio dell’opera si autodefinisce come uno di coloro che paragona Dante e Paperino, e infatti basta scorgere l’indice alfabetico dei nomi citati nel suo libro per imbattersi in quelli che Gadda avrebbe definito “accoppiamenti (in)giudiziosi”: Accetto, Torquato – Agnelli, Gianni; e poi Arbore, Renzo – Argento, Dario – Aristotele; oppure Spinoza – Stalin – Stallone. Insomma: vi è nel libro un’esigenza di totalità al fine di capire per intero la nostra epoca, anche se una delle sue caratteristiche prìncipi è proprio la perdita della totalità.
Tornando alle caratteristiche generali barocche, Calabrese ne individua nove coppie, una per ciascuna dei capitoli che compongono il suo geniale ed originale libro, a parte il capitolo introduttivo e un ultimo capitolo sulla trita e ritrita opposizione tra classico e barocco, che si è visto essere più complessa di quanto lo stesso D’Ors affermi. Il critico fiorentino parte da Ritmo e ripetizione, asserendo che il barocco è per l’appunto un’estetica della ripetizione, in cui vige una dialettica tra identità e differenza: queste opere infatti sono tutte uguali e tutte diverse, e incoraggiano il virtuosismo dell’autore. La seconda coppia è la compresenza di Limite ed eccesso, vale a dire l’eccentricità delle regole rispetto al centro del sistema, che ne agiscono ai limiti senza però minacciarne la regolarità. Un esempio è dato dalla moda contemporanea e dalla sua dominante spettacolare.
La terza coppia è data da Dettaglio e frammento, che secondo Calabrese si distinguono: ma, pur così diversi, rendono lo spirito del tempo, la perdita della totalità. Il loro ruolo è sottolineare l’eccezionalità di ciò che viene osservato tramite di essi. Vengono di poi Instabilità e metamorfosi, rappresentate da mostri e forme informi che si modificano di continuo. Quindi Disordine e caos, dovuti a irregolarità e caso, a loro volta dovuti all’imprevedibilità o all’inintellegibilità dei fenomeni che, se portati alle estreme conseguenze, dànno vita a un caos regolato da sé un cui esempio possono essere i frattali. Abbiamo inoltre i concetti di Nodo e labirinto, che rendono la complessità dell’epoca neobarocca e spiegano il piacere dello smarrimento e dell’enigma.
Al settimo posto vi sono Complessità e dissipazione: la complessità della società di massa porta all’entropia dei generi letterari, la quale quindi nega se stessa con la ri-creazione degli stessi dal caos e la loro ri-semantizzazione, cioè dare loro un nuovo significato. Così il sistema è instabile e abbiamo atteggiamenti culturali come l’ “effimero”, oltrechè la riscoperta del passato, della superficie e della decorazione, tutti fenomeni dal carattere decisamente neobarocco. L’ottava coppia è costituita da Pressappoco e non-so-che. Il linguaggio cerca i mezzi per arrivare a definire come effetto estetico un quid per successive approssimazioni. E’ una poetica del vago, dell’indefinito e dell’indistinto, con effetti di oscurità e il valore del “quasi nulla”.
L’ultima coppia è formata da Distorsione e perversione: quella che Calabrese definisce una geometria non euclidea della cultura. Questa parte è importante per le conclusioni a cui il critico giunge, che valgono forse per l’intero libro. Secondo lui sono forti il ritorno alla citazione in arte e la distopia del passato, nel senso che la prima serve non soltanto a citare l’opera di un altro artista, ma a “rinnovare” il passato: prendendone forme e contenuti sparsi come da un deposito, conferisce loro un nuovo significato in relazione alla contemporaneità, tanto che la nostra epoca è un’età di simulacri, non di documenti. Il passato viene “distorto” con significati “pervertiti”. Tutto è perfettamente contemporaneo. Ne deriva la deriva della storia, gli oggetti neobarocchi risultano “essere sempre qui” in una attualità che è concomitanza di tutti i tempi.
Il secondo libro è del 1991 e si intitola Mille di questi anni, riferendosi alla scadenza millenaria del prossimo anno 2000 ma soprattutto a quella del 1992, vista come una ghiotta anticipazione. Il libro parla più che altro di queste scadenze e come vengono percepite dalla cultura contemporanea, non è propriamente neobarocco, ma i curatori postumi di Calabrese hanno ugualmente voluto inserirlo tra i due saggi sul Neobarocco.
Il primo argomento di questo volume è il passaggio dall’estetica all’etica, la prima essendo per l’appunto quella prima barocca e poi neobarocca, quest’ultima venendo osservata come confermata (d’altro canto erano passati solo quattro anni). Il nuovo atteggiamento etico sarebbe quello dell’attesa della scadenza fatidica prima del 1992 e poi del 2000, un atteggiamento definito con risvolti millenaristi, anche ma non necessariamente religioso. Il sentimento in voga sui mass-media sarebbe quello delle profezie, delle previsioni e di un bilancio degli ultimi mille o duemila anni. Si sottolinea molto il passaggio del 1992 in quanto data dell’unificazione europea – come dice Calabrese dagli uni invocata dagli altri temuta – e in quanto data definitiva della fine di alcuni fenomeni, il Comunismo, e l’inizio di altri, la giustizia internazionale esemplificata dalla Guerra del Golfo e l’immigrazione di massa.
Di fronte a un passato che si chiude e a un futuro che sta arrivando ma non è ancora arrivato c’è un presente le cui caratteristiche sono “transizione e transitorietà”, che convive con l’attesa del nuovo visto come “nuova Apocalisse”, accompagnata da un “desiderio di catastrofe”. Caos, trionfo e solennità ne sono i nuovi risvolti, mentre il presente disincantato che lo attende ha le caratteristiche dell’ecletticità e della citazione (Calabrese ricorda come le virgolette furono inventate proprio nel Seicento), in una sorta di “avvento del pastiche di massa”, accompagnato dal ritorno del sentimento del sacro in certi settori della società e dal sorgere di una sacralità laica, quella dei media e dell’arte. Questi ostentano la menzogna, il falso, la copia, di cui un esempio lampante è il frequente utilizzo nei discorsi pubblici e radiotelevisivi di quella mezza verità che è l’eufemismo.
Vi è inoltre un’estetica dell’oblio: se una volta era nobile il ricordarsi – dal non dimenticare il primo amore al memento mori – oggigiorno è più nobile il saper dimenticare, il rimuovere, sia di per sé che come lago d’oblio da cui sorgano altre memorie selezionate e distinte. Vi è un altro aspetto, negativo, però: la damnatio memoriae dei nemici della nostra società; ad esempio non si parla mai delle opere del periodo nazista, si abbattevano, proprio allora, le statue nei paesi ex-comunisti e più diffusamente, in Occidente, non si perseguitano gli oppositori ma si fa in modo che le loro opere non appaiano, vengano dimenticate.
Il predominio dell’estetica unito alla nuova dimensione etica che attende il Duemila porta all’apparentamento estetico-estatico: l’opera d’arte viene fruita con un sentimento di estasi, che è sia spirituale che fisica (l’ “estesico”, nel senso di un godimento dei sensi estesi nella realtà materiale). Calabrese conclude parlando di angoscia dell’imperfezione e ansia dell’incompiutezza, caratteristiche di una “società del conflitto vuoto”, in cui le identità ideologiche si sono perse nel nome di una omogenea centralità dei contenuti in un conformismo assoluto delle idee. Ultima segnalazione per lo sport visto come una metafora della vita.
L’argomento etico, come si è visto, fa capolino nel secondo libro di Calabrese, ancora condivisibile, trasformando la celebrazione dell’estetica neobarocca del primo in un gioco di luci e ombre; ma è col terzo che irrompe prepotentemente, arrivando a rovesciare le premesse del libro del 1987. A dire la verità leggendo il terzo libro viene voglia di pensare che Calabrese abbia rinnegato i suoi princìpii, legittimo per uno scrittore ma deludente per un ammiratore.
Come detto nel risvolto di copertina del libro curato da Eco, negli ultimi mesi di vita Calabrese aveva rianalizzato il nostro tempo per chiedersi se fosse ancora neobarocco e in che modo. Secondo lui le forme barocche erano degenerate, “imbarocchite” nel senso deteriore della parola: ma diceva questo perché le collegava all’agire politico-sociale a suo modo di vedere pervertito nelle “logiche cortigiane della dissimulazione”. Un giudizio etico sull’estetica neobarocca, assente nel primo libro e a nostro modo di vedere inopportuno perché la inquina di un moralismo non necessario.
Qui si riporterà ciò che è rimasto di neobarocco, senza addentrarci nelle novità dell’ultim’ora – come ad esempio un glossario politico degno più dell’Espresso che di uno studioso di estetica -. Il libro avrebbe dovuto intitolarsi o è stato intitolato dai curatori Generazioni e degenerazioni, conferma alcuni contenuti del secondo come il desiderio di catastrofe e soprattutto aspetti generali del Barocco come l’apparenza, l’illusione, il mito dell’eroe individuale, il sentimento visto come forte, ingenuo e passionale; e infine il culto per la naturalezza e per la natura, tutte caratteristiche che portano inevitabilmente alla rinascita del Romanzo tradizionale.