Al termine della disamina sui barocchi storici D’Ors inserisce un excursus finale su due specie di barocco, il Barocchus vulgaris e il Barocchus officinalis, a suo dire apparentemente acronologici e proprii a tutte le epoche. Del primo dice che è “quel curioso barocco folkloristico, il barocchismo dell’arte popolare che, a forza di essere anonimo, è giunto a sembrare plurisecolare e a perdere il diritto di essere iscritto nella cronologia.” Ma questo per il critico spagnolo è un “certo atteggiamento erroneo in rapporto alle manifestazioni dell’arte popolare e, in generale, del folklore” che “ha fatto vedere in esse – obbedendo ad un pregiudizio romantico – qualche cosa di plurisecolare, di fuori della memoria, per meglio dire sfuggito per sua natura alla determinazione degli eoni e degli stili.” Ma, prosegue lo studioso, “di fatto, se si indaga la questione con spirito critico, si può vedere tutta una morfologia (costumi regionali, costumi tipici, musiche popolari, danze, canzoni, gergo) che, quando non è il prodotto concreto delle tendenze del XVII e XVIII secolo, risponde tuttavia alle forme di quel paganesimo incorreggibile che prolunga e perpetua l’ispirazione della Natura e della Preistoria in tutto quel che porta il sigillo del Barocco.”
La nozione di arte popolare è stata abbozzata e definita da un lato (e con un secolo di ritardo) in margine agli studi sulla poesia popolare avviati con la rivalutazione romantica dei concetti di popolo e di nazione, dall’altro in opposizione all’estetica idealista che aveva usato il termine popolare come sinonimo di “deteriore” nei confronti dell’arte colta. Nell’ambiente culturale inglese della seconda metà dell’Ottocento il preraffaellismo avviò quel gusto per il primitivo che indusse successivamente alla rivalutazione dell’alto artigianato medievale e rinascimentale.
Contemporaneamente si svilupparono, animate da un interesse nazionalistico, le prime ricerche documentarie sull’arte popolare in Russia e nei Paesi nordici che mancavano di un’originale arte colta. Seguirono dei lavori eruditi per l’Austria e la Germania che già intuivano la problematica del rapporto tra artista popolare e tradizione. Nacque intanto ai primi del Novecento la moda per l’oggetto d’arte o meglio d’artigianato popolare ridotto a scimmiottatura dalle necessità commerciali (moda che si prolunga nell’attuale gusto per il “rustico”).
Nel 1927 Bossert redasse una summa degli studi sull’arte popolare europea e individuò nell’artigianato di moda il suo momento degenerativo. Negli studi successivi al 1930 venne chiarendosi la necessità di una più circostanziata indagine storico-sociale, dalla quale la nozione di arte popolare uscì arricchita di un contenuto più sfumato e problematico, liberandosi delle ideologie aprioristiche che sembravano attribuirle un’essenza universale e immutabile. L’aggettivo popolare applicato all’arte è divenuto così realmente indice di una qualità individuabile soltanto storicamente, e strettamente connessa al complesso delle caratteristiche culturali e sociologiche dell’ambiente al quale si riferisce e in cui si manifesta.
Il concetto di popolarità dell’arte, subordinato a quello di dislivello socioculturale, nei molti aspetti che esso assume nell’Europa post-rinascimentale, risulta meglio individuabile in questa area e in questo periodo, mancando allo stato attuale degli studi i criteri e i dati per un’analoga indagine sui corrispettivi dell’arte antica od orientale. Restano tuttavia ancora incerti e discutibili i confini tra arte popolare, arti minori e artigianato, contribuendo inoltre certi filoni d’arte naive, primitiva o provinciale, a confonderne i limiti, sebbene l’arte popolare se ne distingua per certo carattere tradizionale dell’iconografia e dell’ornamentazione e per gli strati sociali dai quali è prodotta e che ne fruiscono.
Altri studiosi hanno pòsto l’accento sulle analogie tra il repertorio decorativo popolare e la simbologia, la magia, l’arte preistorica, avanzando l’ipotesi della sopravvivenza nell’arte popolare di strati culturali antichissimi; ma queste posizioni tuttavia rivelano la loro teorica rigidità di fronte a un’arte che si qualifica come tale proprio in quanto il momento creativo modifica la tradizione dall’interno.
Altri affrontano la problematica dei rapporti tra arte popolare e arte colta, sebbene per affermare l’assoluta inferiorità della prima rispetto alla seconda, della quale l’arte popolare ripeterebbe, deteriorandoli, i motivi; rapporti che vanno invece indagati volta per volta prescindendo da ogni pregiudizio. A caratterizzare certa produzione come arte popolare è quindi un apporto creativo individuale su un sostrato d’artigianato tradizionale o su una matrice colta ma rivissuta popolarescamente.
Scaturiscono così alcuni caratteri formali e di contenuto, pur nella loro relatività: dall’adozione di ritmi compositivi simmetrici e ripetuti nella decorazione alla mancanza di senso dello spazio e alla prevalenza dell’ornamentazione sulla struttura; dalla tendenza all’astrazione all’accentuazione espressionistica; dalla semplificazione di certi caratteri (colore, linea, volumi) nelle scene figurate al particolare tono psicologico caratterizzato da spontaneità, freschezza, passionalità, elementarità e dalla prevalenza di un contenuto e di schemi formali tradizionali.
Tra arte popolare e artigianato viene dunque a disporsi la ricca e varia produzione tradizionale delle diverse nazioni europee, assai diversificata nelle regioni, e degli Stati americani; produzione in seno alla quale l’oggetto d’uso può assumere il tono della creazione unica o dell’elemento di serie. Tra le sue forme si ricordano l’architettura nelle sue forme rustiche e “spontanee”, dal cottage inglese alle forme di edilizia alpina del Tirolo, della Svizzera, delle valli italiane, dai trulli pugliesi alla corte padana, dalla casa di tipo mediterraneo delle Baleari o delle isole greche alla izba russa; l’intaglio del legno per decorazioni applicate all’architettura, per utensili, mobili, sculture, dai presepi fiamminghi in legno dipinto ai cassoni nuziali sardi, dai carretti siciliani ai giocattoli tedeschi, alle casse da corredo russe; la tessitura, il ricamo, il merletto, dai tweeds irlandesi agli scialli di Shetland, dai tessuti con motivi in rilievo della Finlandia (ryijy) e della Danimarca ai pizzi di Anversa, Bruxelles, Gand, Valenciennes, o di Burano o della Liguria, e ai ricami variopinti della Bulgaria, dell’Albania, dell’Ucraina; la lavorazione dei metalli, dal ferro battuto delle grate e delle griglie spagnole o portoghesi alle insegne inglesi e fiamminghe, dagli argenti di Giannina in Grecia alle filigrane di Scutari o della Sicilia; la pittura su tavola o vetro, dalle icone greche alle pitture votive bavaresi o italiane; la ceramica, da Delfi a Gubbio e Faenza, dalle maioliche dell’Aquitania alle porcellane tedesche agli azulejos spagnoli e portoghesi; la lavorazione del cuoio, della paglia, del giunco ecc.