“ Muta è la natura e la s’interroga invano,
Si ha bisogno di un Dio che parli al genere umano.
A Lui soltanto appartiene l’opera sua spiegare,
Racconsolare il debole, il saggio illuminare…
Tutto un dì sarà bene, ecco la nostra speranza:
Tutto è bene oggidì, l’illusione è codesta”.
La Giovinezza
Quando re Luigi XVI, rinchiuso nella prigione del Tempio, vide le opere di Voltaire, di cui gli avevano tappezzato la cella, disse : « Quest’uomo ha distrutto la Francia ». Aveva distrutto molto di più: un modo di essere, di pensare e di agire, una concezione di vita, una cultura e una civiltà. Aveva in pratica distrutto l’ancien régime.
Il suo vero nome era Francois Marie Arouet, ed era nato a Parigi il 21 novembre 1694. Figlio di un notaio molto stimato e di un’aristocratica che morì dandolo alla luce. Alla nascita era talmente fragile e malaticcio che sembrava dovesse morire da un momento all’altro. Invece visse ottantaquattro anni.
La famiglia aveva lasciato Parigi per una piccola città di provincia, dove il Re aveva confinato, per i suoi scandali, la cortigiana più spregiudicata e intelligente del momento: Ninon de Lenclos.
Ninon conobbe il piccolo Francois e fu la prima persona a intuirne il genio. Morendo gli lasciò 2000 franchi perché potesse dedicarsi alle lettere. Il padre aveva tentato di ostacolare la passione del figlio per i libri: “ La letteratura – diceva – è il mestiere di chi vuole essere inutile alla società, di peso ai parenti e di danno a se stesso.” Nella speranza di raddrizzarlo, aveva affidò Francois alla pedagogia di un abate, padre Coignard, scelta non molto felice. Padre Coignard era un prete tipicamente settecentesco, cioè colto e libertino che insegnò al suo allievo trucchi di dialettica e l’arte di applicarli in modo contestativo.
A dodici anni Francois era già un contestatore pieno di vita. La sua voglia di libertà lo spingeva a scegliersi le compagnie più scapestrate. Tanto che il padre lo confinò da un parente a Caen. In seguito lo fece assumere come scrivano da un ambasciatore francese all’Aja. Qui Francois si innamorò di una ragazza e ne nacque un piccolo scandalo che provocò il suo richiamo.
Conquistato dallo spirito della capitale si fermò a Parigi. Il Re Sole era morto da poco e al suo posto, c’era unReggente, un Orleans, in attesa che il nuovo re, Luigi XV raggiungesse la maggiore età. A corte si respirava aria di libertinaggio e quest’atmosfera si poteva cogliere anche in società. I salotti si riempivano di pettegolezzi e il giovane Francois vi trovò la sua eco. Non vi è dubbio che egli fece del salotto e della conversazione francese una palestra di intelligenze, il regno della spegiudicatezza e dell’eleganza.
Da Francois Marie Arouet a Voltaire
Le sue battute facevano il giro ed arrivarono anche alle orecchie del Reggente che un giorno, incontrandolo gli disse: “ Signor Arouet, io vi posso mostrare qualcosa che non avete mai visto. L’interno della Bastiglia”. E il giorno dopo il signor Arouet vi si trovò rinchiuso.
Fu in quei mesi di carcere che Francois adottò lo pseudonimo di Voltaire (anagramma di Francois-Marie Arouet le jeune). E qui compose l’Edipo una tragedia in prosa. Quando ne uscì fu accolto come un martire del libero pensiero. Il suo Edipo venne messo in scena e il successo fu enorme. Tra gli spettatori c’era anche il padre che non riuscì a nascondre il suo compiacimento.
Per un decennio Voltaire fu la “stella” dei salotti parigini ma, a causa di un alterco con il Duca di Rohan, fu di nuovo rinchiuso alla Bastiglia dalla quale uscì subito dopo ma con un foglio di via per l’Inghilterra.
In Inghilterra dove era già famoso vi rimase tre anni. Vi arrivò appena in tempi per assistere ai funerali di Newton.
Dell’Inghilterra Voltaire ammirò la società; la libertà con cui gli intellettuali criticavano il governo e la monarchia. Studiò la lingua inglese, la letteratura da Shakespeare in poi, e la filosofia di Hobbes e Locke.
Il frutto di questi studi e di queste esperienze lo si trova nelle Lettere inglesi, una raccolta di saggi stupendi sulla vita, il costume e la società di Londra.
Ciò che Voltaire trovò in Inghilterra era ciò che mancava alla Francia: una stampa senza censura, un parlamento che teneva testa al Re, la libertà di pensiero e di credo.
Tornato in Francia rischiò di nuovo il carcere perché un editore aveva stampato le Lettere. Questa volta anche l’opinione pubblica fu contro di lui. In quelle lettere, dove l’Inghilterra veniva esaltata, la Francia si sentì ferita nel suo orgoglio patriottico. A Voltaire non restò che fuggire.
La Marchesa di Chatelet
Lo accompagnava una donna. Una marchesa molto più giovane di lui che aveva lasciato il marito per seguirlo, La signora di Chatelet. Voltaire diceva di lei che il suo unico difetto era quello di essere donna. La Marchesa aveva un che di genio anche lei : aveva tradotto Newton e composto un saggio sulla fisica del fuoco. Tra lei è Voltaire il sesso c’entrava poco, anzi forse non c’entrava affatto. Si accasarono nel castello di Cirey e fu in questo ritiro che Voltaire divenne davvero Voltaire.
Scrisse uno dopo l’altro Zadig e Il mondo come va. Non erano dei veri e propri romanzi. Voltaire si servì del romanzo per difendere le sue tesi. I protagonisti non sono personaggi ma idee. Nel suo romanzo l’Ingenuo egli incarna le idee di Rousseau facendogli fare la parte dell’imbecille. Micromegas è il suo amico, lo scrittore Jonathan Swift. Questi racconti vanno giudicati sul piano dei pamphlet, cioè del libello polemico di cui rappresentano un modello insuperato.
Le opere di Voltaire dilagarono ovunque raggiungendo “tirature” di 300.000 copie, una cifra spaventosa in un’epoca in cui le masse erano analfabete.
Ma la fama rischiò di renderlo prigioniero del suo successo. Per ottenere l’ammissione all’Accademia di Francia tornò sui suoi passi sulle critiche alla Chiesa. Il grande provocatore scendeva ad un compromesso con l’ordine costituito peccando di vanità. Ma proprio in quel periodo, dopo quindici anni di convivenza, la signora di Chatelet si innamorò del marchese Saint-Lambert e andò via con lui. All’inizio la reazione di Voltaire fu di grande rabbia ma poi piombò nella più nera malinconia. Poco dopo la marchesa morì di parto. Al suo funerale si ritrovarono intorno al feretro, il marito, Voltaire, e Saint-Lambert che si scambiarono commosse condoglianze e divennero amici.
Il Re e il Filosofo
A Cirey la vita per Voltaire era diventata insopportabile. Per uscire dalla sua depressione accettò l’invito di Federico II , suo ammiratore da sempre. Fu accolto a Potsdam presso Berlino con onori degni di un sovrano e all’inizio tra il Re e il filosofo andò tutto bene. Ma i due uomini avevano lo stesso carattere, si somigliavano troppo per potere andare d’accordo e tra loro si accesse presto una forte concorrenza.
Un giorno ebbero un diverbio sulle teorie di un matematico. Voltaire che contestava queste teorie scrisse contro il matematico un libello che poi lesse a Federico. Il Re all’inizio si divertì ma vietò a Voltaire di pubblicarlo. Il filosofo, che lo aveva già consegnato all’editore, fuggì. Gli agenti di Federico riuscirono a raggiungerlo e lo tennero prigioniero con l’accusa di aver rubato un poema scritto da Federico. In realtà il manoscritto era andato perduto e un editore se ne era impadronito stampandolo senza il permesso. Tra il Re e Voltaire scoppiò un acceso litigio ma alla fine il filosofo ottenne il permesso di riprendere il viaggio.
Il Saggio sui costumi
Fu alla frontiera che seppe che la Francia aveva comminato un bando su di lui. Il motivo era la pubblicazione del suo “Saggio sui costumi” un trattato di storia. Voltaire non era molto preparato in questa materia, riteneva del resto la storia, “una burla che i vivi giuocano ai morti” aggiungendo che serviva solo a dimostrare che nulla può essere dimostrato dalla storia. Il libro aveva provocato il finimondo perché lo scrittore fu il primo a scrivere una sintesi di storia che abbracciasse tutta la vicenda umana, ma non solo quella della Francia o d’Europa, ma anche dell’America e dell’Estremo Oriente, dagli albori fino al suo secolo. Era una sintesi priva di particolari perché, come diceva, i particolari interessano solo gli archivisti. Le date, le battaglie non contano ma contano solo i motivi della battaglia e i suoi effetti. Per la prima volta uno storico denunciava l’azione disgregatrice che il Cristianesimo aveva esercitato sulla società romana e per la prima volta l’Europa cessava di essere la protagonista nella storia per far posto all’India, alla Persia, alla Cina. L’Europa non era più il centro della terra e questo non era perdonabile.
Crisi di coscienza
Voltaire si fermò a Ferney, e sommerse la Francia di lettere e libelli che mettevano in ridicolo chi l’accusava. Presto la sua casa divenne la Mecca di tutti i ribelli; in tanti gli scrivevano e a tutti rispondeva. Rispose anche a Rousseau, che aveva corbellato una sua poesia sul terremoto di Lisbona. Ma non con una semplice lettera; gli rispose con il più bello dei suoi romanzi satirici, il Candido che finì in tre giorni.
Gli Enciclopedisti, Diderot e D’Alambert lo riconobbero come loro maestro e chiesero la sua collaborazione nell’Enciclopedia. In questo stesso periodo scrisse il suo Dizionario filosofico, l’opera più completa. Come Francesco Bacone e Cartesio, Voltaire parte dalla negazione di ogni verità: “ Il dubbio non è piacevole ma la certezza è ridicola. Soltanto gli imbecilli sono sicuri di ciò che dicono.”
Abbandonò questo suo atteggiamento di testimone disincantato in seguito a due episodi,che non lo toccarono personalmente, ma misero in crisi la sua coscienza. A Tolosa, il padre protestante di un giovane suicida, per sottrarre il corpo di suo figlio al barbaro castigo previsto dalla legge (il trascinamento del cadavere a faccia in giù sulla pubblica stada) disse che il figlio era morto di morte naturale. Presto si sisse che era stato lui ad uccidere il figlio perché questi voleva convertirsi alla religione cattolica e il pover’uomo morì seviziato.
Poco tempo dopo un sedicenne accusato di avere mutilato un crocefisso e di avere in tasca il Dizionario filosofico di Voltaire, fu bruciato vivo.
Questi fatti di cronaca scossero profondamente il filosofo che si convinse che bisognava gettarsi, anima e corpo, nella battaglia e lo fece con una carica che smentiva i suoi anni.
Ecrasez l’infame
Il suo grido di guerra fu Ecrasez l’infame: l’infame era la Chiesa e il sistema che la sosteneva, l’ancien regime. Voltaire era credente ma il Dio in cui credeva non era “rivelato”, malgrado avesse scritto pagine stupende su Cristo.
“Il più strabiliante assalto lanciato da un uomo solo contro la Chiesa” disse Robertson. Il potere laico e quello ecclesiastico ne ebbero paura ma non potendo impedire a Voltaire di parlare, cercarono di offrirgli il cappello cardinalizio. Ma Voltaire ormai era immune da ogni vanità, volendo rimanere fedele a se stesso e alle sue idee e convinto che la vittoria fosse vicina. Ne vide un segno con l’ascesa di Turgot. “La Rivoluzione è ormai alle porte” diceva. Ma per rivoluzione egli intendeva una serie di riforme elaborate da intellettuali di cui il popolo sarebbe stato l’oggetto e non il soggetto.“Quando il popolo si mette a ragionare, è perduto”. L’unica uguaglianza per Voltaire era quella di fronte alla legge e la rivoluzione uno sviluppo guidato dalla ragione e basato sul progresso morale. Alla monarchia preferiva la repubblica, ma alla repubblica preferiva un re come Marco Aurelio. Sognava un monarco assoluto e illuminista che realizzasse le riforme di Turgot. La democrazia la rifiutava perché non credeva nel popolo.
Con le riforme di Turgot, il vecchio regime in Francia sarebbe diventato moderno ma con la caduta del ministro il paese rimase profondamente deluso. La Francia non voleva più correggere il “sistema” ma sovvertirlo.
Questo cambiamento Voltaire lo colse nel saggio di Jean Jacques Rousseau, il Discorso sull’origine dell’ineguaglianze, in cui si asseriva che senza le cattive leggi, l’uomo è buono come lo sono i selvaggi e gli animali.
Voltaire disprezzava Rousseau e le sue idee, lo chiamava “il cane impazzito di Diogene”. E mai avrebbe immaginato che gli intellettuali francesi ne avrebbero fatto il loro idolo e che la rivoluzione avrebbe riconosciuto in lui il proprio profeta.
A Parigi, Voltaire fu accolto trionfalmente. La folla fermò la carrozza, staccò i cavalli e la trascinò a spalle. La pelliccia dello scrittore perse tutti i suoi peli perché a migliaia se ne disputarono i ciuffi. Aveva ottantatrè anni ed era ormai ridotto ad uno scheletro; arrivò a destinazione con le ossa rotte e una broncopolmonite che lo mise in pericolo di vita. Ma ancora convalescente volle assistere alla rappresentazione dell’Irene, suo ultimo dramma.
Abbiate sempre qualcosa da fare
Aveva lavorato tantissimo; probabilmente ipocondriaco, egli era un malinconico che trovava solo nel lavoro consolazione. Il suo umorismo era un antidoto alle sue malinconie.
“ Abbiate sempre qualcosa da fare, se non volete suicidarvi”. Ed egli poteva ritenersi soddisfatto del lavoro compiuto. Erano più di cento i volumi che portavano il suo nome e tutti pieni delle scintille del suo genio.
Morì a Parigi il 30 maggio 1778. La Chiesa gli negò la sepoltura in terra consacrata ma con la scusa che era ancora vivo, i suoi fedeli riuscirono a trasportarlo a Scellières, dove un prete coraggioso e di mente libera lo accolse nel suo cimitero.
Nel 1791 l’Assemblea Nazionale costrinse Luigi XVI a ordinare la traslazione dei suoi resti nel Pantheon. Furono più di mezzo milione le persone che fecero ala al suo passaggio.