David Hume nasce a Edimburgo nel 1711, presso una famiglia di magistrati. Riceve una formazione umanistica e giuridica, ma si orienta verso gli studi filosofici. Stabilitosi in Francia dal 1734 al 1737, vi scrive la sua opera maggiore, il Trattato sulla natura umana che verrà pubblicato dopo il suo ritorno a Londra. In seguito rivede l’opera e la riespone in alcuni scritti su argomenti specifici, in particolare nei Saggi morali e politici del 1741, nella Ricerca sull’intelletto umano del 1748 e nella Ricerca sui principi della morale del 1751. Nel frattempo, non essendo riuscito ad ottenere la cattedra di filosofia all’università di Edimburgo, svolge incarichi di segretario e consulente politico, recandosi fra l’altro, tra il 1745 ed il 1748, a Vienna e Torino. Nel 1752 diviene bibliotecario della facoltà di diritto a Edimburgo. Nel 1761 pubblica Storia dell’Inghilterra. Usciranno invece postumi i Dialoghi sulla religione naturale composti in questi anni. Recatosi in Francia dal 1763 al 1766 come segretario dell’ambasciatore inglese, vi frequenta gli ambienti illuministici e conosce Rousseau, che ospiterà più tardi in patria, ma con il quale si apriranno forti dissensi. Dal 1767 al 1768 ottiene alcuni incarichi in patria dal governo Pitt e successivamente si ritira a Edimburgo, dove muore nel 1776.
L'empirismo di Hume
La filosofia di David Hume sviluppa in estremo, portandola a conclusione logica, la filosofia empirista di Locke e Berkeley rendendola coerente e incredibile. I filosofi posteriori si cimenteranno tenacemente alla confutazione dell’empirista inglese rimanendo tuttavia metafisici poco utili.
La novità delle dottrine di Hume si trovano nel primo libro del trattato. Hume comincia con la distinzione tra impressioni e idee. Si tratta di due tipi di percezione: le impressioni sono quelle che hanno più forza e violenza. “Per idee intendo le immagini più deboli tra quelle del pensare e del ragionare”. Le idee, almeno quando sono semplici, sono come le impressioni, ma più deboli. “Ogni idea semplice ha un’impressione semplice che le rassomiglia; e ogni impressione semplice ha la sua idea corrispondente”. “Tutte le nostre idee semplici, al loro primo apparire, derivano da impressioni semplici, che sono corrispondenti ad esse e che esse rappresentano esattamente”. Le idee complesse, d’altra parte, non assomigliano necessariamente ad impressioni. Possiamo immaginare un cavallo alato senza averne mai visto uno, ma i costituenti di questa idea complessa derivano tutti da impressioni. La prova che le impressioni sono antecedenti è data dall’esperienza; per esempio, un uomo nato cieco non ha alcuna idea dei colori. Delle idee astratte dice: ”tutte le idee generali non sono altro che idee particolari, legate a un certo termine che dà loro un significato più estensivo, e fa si ch’esse richiamino alla mente in determinate occasioni altre singole cose simili ad esse….. Le idee astratte sono, in se stesse, idee individuali, però possono diventare generali allorché vengono rappresentate”.
Questa teoria ha due difetti, uno logico, l’altro psicologico. Per cominciare con l’obiezione logica: “Quando abbiamo trovato una rassomiglianza tra parecchi oggetti”, dice Hume, “applichiamo a tutti lo stesso nome”. Ogni nominalista approverebbe. Ma in realtà un nome comune, come gatto, è altrettanto irreale del gatto universale. La soluzione nominalista del problema degli universali cade, così, per il fatto di non essere sufficientemente drastica nell’applicazione dei propri stessi principi: erroneamente applica questi principi soltanto alle cosee non anche alle parole.
L’obiezione psicologica è più seria, la teoria delle idee come copie delle impressioni è difettosa in quanto ignora l’indeterminatezza. Quando, per esempio, ho visto un fiore d’un certo colore, e più tardi richiamo alla mente un’immagine di esso, l’immagine manca di precisione, nel senso che ci sono parecchie sfumature di colore assai simili, di cui quella potrebbe essere l’immagine, o l’idea, nella terminologia di Hume. Non è vero che “lo spirito non può formarsi alcuna nozione di quantità o qualità senza formarsi una nozione precisa del grado di ciascuna di esse”.
Quando Hume dice che le idee derivano dalle impressioni che esse rappresentano esattamente, va al di la di ciò che è psicologicamente accettabile.
Hume scacciò il concetto di sostanza dalla psicologia, così come Berkeley l’aveva scacciato dalla fisica. Non esiste, dice Hume, alcuna impressione di se Stessi, e quindi nessuna idea di se stessi “Per parte mia, quando penetro più intimamente in ciò che chiamo me stesso, inciampo sempre in una o in un’altra particolare percezione, di caldo o di freddo, di luce o d’ombra, d’amore o d’odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai ad affermare me stesso senza una percezione, e non posso osservare mai niente altro che la percezione”.
Il rifiuto dell’idea dell’io è di grande importanza. L’io, se qualcosa di simile esiste, non è mai percepito, e quindi non possiamo averne idea alcuna. Nessuno percepisce il proprio cervello, tuttavia, fondamentalmente, ne ha un’idea. Tali idee, che sono tratte per inferenza dalle percezioni, non rientrano nel novero delle idee fondamentali dal punto di vista logico; sono bensì complesse e descrittive; se invece si respinge questo principio, si è ricondotti per forza alle idee innate. L’io, così com’è definito, non può essere altro che un mazzo di percezioni, e non una nuova cosa semplice. Non ne consegue che non c’è un io semplice; ne consegue solo che non possiamo sapere se ci sia o no, e che l’io, fuorché come mazzo di percezioni, non può trovar posto in nessun modo nella nostra conoscenza. Questa conclusione ha importanza in metafisica, perché elimina l’ultima sopravvivenza della sostanza. E’ importante in teologia, in quanto abolisce tutta la supposta conoscenza dell’anima è importante nell’analisi della conoscenza, perché dimostra che la categoria del soggetto e dell’oggetto non è fondamentale.
La parte più importante di tutto il Trattato è quella intitolata Della conoscenza e della probabilità. Ciò di cui Hume si occupa è la conoscenza incerta, quale si ottiene dai dati empirici attraverso inferenze che non sono dimostrative. Ciò riguarda tutta la nostra conoscenza intorno al futuro, e intorno alle cose non osservate del passato e del presente. In realtà comprende tutto fuorché, da una parte, l’osservazione diretta, e dall’altra la logica e la matematica. Hume comincia distinguendo sette tipi di relazioni fìlosofìcamente rilevanti: somiglianza, identità, relazioni di tempo e di spazio, proporzione di quantità o di numero, grado delle qualità, contraddittorietà e causalità. Questi tipi possono essere divisi in due categorie: quelli che dipendono soltanto dalle idee, e quelli che possono esser mutati senza alcun cambiamento nelle idee. Alla prima categoria appartengono: somiglianza, contraddittorietà, grado delle qualità, e proporzione di quantità o di numero. Le relazioni spazio-temporali e causali appartengono invece alla seconda categoria. Soltanto le relazioni della prima categoria danno una conoscenza certa; la nostra conoscenza intorno alle altre è solo probabile. L’algebra e l’aritmetica sono le sole scienze che ci consentano di effettuare un lungo ragionamento concatenato senza abbandonare il terreno della certezza. La geometria non è certo come l’algebra e l’aritmetica, perché non possiamo esser sicuri della verità dei suoi assiomi.
Le tre relazioni che non dipendono soltanto dalle idee sono l’identità, le relazioni spazio-temporali, e la causalità. Nelle prime due, lo spirito non va oltre ciò che è immediatamente presente ai sensi; la sola causalità ci mette in grado di dedurre qualche cosa o qualche avvenimento da qualche altra cosa ha avvenimento. Una difficoltà nasce dalla supposizione di Hume che non si possa avere l’impressione d’una relazione causale. Possiamo percepire, attraverso la semplice osservazione di A e B, che A è al disopra di B, o a destra di B, ma non che A causi B. Nel passato, la relazione di causalità era stata più o meno assimilata a quella dell’origine e della conseguenza nella logica, ma questo era un errore. Nella filosofia cartesiana, come in quella degli scolastici, si supponeva che la connessione di causa ed effetto fosse necessaria. Hume comincia con l’osservare che il potere d’un soggetto di originarne un altro non è discernibile dalle idee dei due soggetti, e che noi possiamo quindi conoscere la causa e l’effetto solo per esperienza, non per ragionamento o per riflessione. “ciò che comincia deve avere una causa…non c’è alcun oggetto che implichi l’esistenza d’un altro oggetto, se consideriamo questi oggetti in se stessi e non guardiamo mai oltre le idee che ci formiamo di essi”.
Hume ne deduce che dev’essere l’esperienza a darci la nozione di causa ed effetto, ma che non può essere soltanto l’esperienza dei due avvenimenti A e B, che sono tra loro in rapporto causale. Dev’essere l’esperienza, dato che il legame non è logico; e non può essere unicamente l’esperienza dei singoli avvenimenti A e B, dato che non possiamo scoprire nulla in A, preso in se stesso, che possa spingere A ad originare B. L’esperienza richiesta, dice Hume, è quella del legame costante degli avvenimenti del tipo A con gli avvenimenti del tipo B. Precisa che, quando nell’esperienza due oggetti sono costantemente legati, noi di fatto li deduciamo l’uno dall’altro. Vale a dire: vedere A provoca l’aspettazione di B, e ci porta così a credere che ci sia un legame necessario tra A e B. La deduzione non è determinata dalla ragione, dato che questo richiederebbe un’uniformità della natura, che non è necessaria in se stessa, ma soltanto ricavata dall’esperienza.
Hume è spinto così a sostenere che quando diciamo « A causa B » intendiamo solo che A e B sono di fatto sempre collegati, non che c’è un legame necessario tra loro. Attraverso questo legame, se A e B nella passata esperienza sono stati sempre collegati, l’impressione di A produce quella vivida idea di B, che costituisce ilcredere in B. Questo spiega perché noi crediamo che A e B siano collegati: la percezione di A è collegata con l’idea di B, e così finiamo con il pensare che A sia collegato con B, per quanto questa opinione sia in realtà infondata. “Gli oggetti non hanno legami accertabili tra loro; né per qualche principio diverso dall’abitudinenoi possiamo trarre qualche deduzione tra l’apparenza di un oggetto e l’esistenza di un altro oggetto”. Hume ripete molte volte l’affermazione che quanto ci appare come un legame necessario tra oggetti è in realtà solo un legame tra le idee di quegli oggetti: lo spirito viene determinato dall’abitudine.
Ecco un esempio: se mangio una mela mi attendo di sperimentare un certo sapore. Secondo Hume, non c’è alcun motivo per cui debba sperimentare proprio quel sapore: la legge dell’abitudine spiega l’esistenza della mia attesa, ma non la giustifica. Ma la legge dell’abitudine è essa stessa una legge causale. Prendendo sul serio Hume dobbiamo dire: per quanto nel passato la vista di una mela sia andata congiunta con l’attesa di un certo sapore, non c’è ragione per cui questo legame debba continuare a verificarsi: forse la prossima volta che vedrò una mela mi aspetterò che essa abbia il sapore del roast-beef. Voi potete, lì per lì, pensare che questo sia improbabile; ma questa non è una buona ragione per prevedere che stimerete la cosa improbabile di qui a cinque minuti. Se la dottrina oggettiva di Hume è giusta, non esiste, per le previsioni in campo psicologico, un fondamento migliore di quel che esista nel mondo fisico.
Esaminando la questione: 1) quando diciamo A causa, tutto ciò che abbiamo diritto di dire è che, nell’esperienza passata, A e B sono apparsi frequentemente insieme o in rapida successione, e non è stato osservato alcun esempio in cui A non fosse seguito o accompagnato da B; 2) per quanti esempi possiamo aver osservato del legame tra A e B, questo non ci dà alcuna ragione per attenderci che essi saranno congiunti anche in un’occasione futura.
Riassumendo: nella causalità non esiste alcuna relazione indefinibile, eccetto la congiunzione o successione; l’induzione per semplice enumerazione non è una forma valida di ragionamento. In genere gli empiristi hanno accettato la prima di queste tesi e respinto la seconda perché considerano che la probabilità che tale associazione si verifichi anche la volta successiva sarà superiore al cinquanta per cento. Hume riassume il suo ragionamento come segue: So benissimo che di tutti i paradossi, che ho avuto o avrò in seguito occasione di proporre nel corso di questo trattato, questo è uno dei più violenti, e che soltanto a forza di solide prove e di ragionamenti posso sperare di farmi dar ragione e di superare gli inveterati pregiudizi dell’umanità. Prima di conciliarci con questa dottrina, quanto spesso dobbiamo ripeterci che la semplice vista di due oggetti qualsiasi comunque in rapporto tra loro, non può mai darci l’idea d’una forza o d’un legame esistenti fra loro; che questa idea nasce dalla frequenza del loro associarsi; che questa frequenza non scopre né provoca alcunché negli oggetti, ma ha un’influenza solo sullo spirito, in cui produce questa abituale trasposizione: che questa abituale trasposizione è, quindi, la stessa cosa della forza e della necessità che in conseguenza sono immaginate dall’anima, e non percepite esternamente nei corpi?
L’oppositore di Hume deve ammettere che per quanto riguarda le scienze l’empirista inglese abbia ragione ma può dire che in psicologia la concezione di causa è derivata probabilmente dalla volontà: si può dire anzi che noi possiamo percepire una relazione, tra un atto di volontà e l’azione che ne consegue, che è qualcosa di più d’una successione costante. Lo stesso si può dire della relazione tra un dolore improvviso e un grido. Tali teorie, però, sono complicate assai dalla fisiologia. Tra la mia decisione di muovere un braccio e il conseguente movimento, c’è una lunga catena di intermediari causali, consistenti nei processi che si verificano nei nervi e nei muscoli. Questo argomento non risolve la questione generale e dimostra come sia imprudente supporre che noi percepiamo davvero le relazioni causali, allorché crediamo di percepirle.
Hume non si accontenta di ridurre quella che si prende comunemente come prova di una relazione causale all’esperienza di una frequente successione; afferma anche che tale esperienza non giustifica affatto l’aspettativa di successioni simili nel futuro. “La supposizione che il futuro assomigli al passato non è fondata su argomenti di nessun genere, ma è interamente derivata dall’abitudine”. La conclusione è totalmente scettica.
“La natura, per un’assoluta e incontrollabile necessità, ci spinge a giudicare non meno che a respirare o a sentire; né possiamo in alcun modo evitare di veder certi oggetti in una luce più forte o più piena più di quanto possiamo trattenerci dal pensare mentre siamo svegli, o dal vedere, i corpi circostanti, quando volgiamo gli occhi attorno. Chiunque si è preso la pena di confutare lo scetticismo totale, ha realmente litigato senza un antagonista, e si è sforzato di trovare argomenti per definire una facoltà, che la natura aveva già assegnato alla mente e che aveva già reso inevitabile. Quindi la mia intenzione, nell’esporre con tanta cura gli argomenti di quella fantastica setta, era soltanto di far constatare al lettore la verità della mia ipotesi, che tutti i nostri ragionamenti intorno alle cause e agli effetti derivino da nient’altro che dall’abitudine; e che il credere è più propriamente un atto della parte sensitiva che non della parte cogitativa della nostra natura”….”Questo dubbio scettico, sia rispetto alla ragione che ai sensi,è una malattia che non può mai essere curata alla radice, ma deve ripresentarsi a noi ad ogni istante, per quanto noi possiamo scacciarla e per quanto a volte possa sembrare che ce ne siamo interamente liberati... Soltanto la noncuranza e l’indifferenza possono offrirci qualche rimedio. Per questa ragione mi appoggio interamente su di esse; e siate certi, qualunque possa essere l’opinione del lettore in questo istante, che di qui ad un’ora egli sarà persuaso che esistono sia un mondo esterno che un mondo interno “.
Non c’è alcun merito per studiare la filosofia, così sostiene Hume, eccetto il motivo che, per certi temperamenti, essa costituisce un piacevole modo di passare il tempo. « In tutti gli eventi della vita dovremmo conservare il nostro scetticismo. Se crediamo che il fuoco riscaldi o che l’acqua rinfreschi, questo è solo perché ci costa troppa fatica pensare altrimenti. Anzi, se siamo filosofi, ciò dovrebbe avvenire soltanto sulla base di principi scettici, e per un’inclinazione che sentiamo a impegnarci a quel modo». Se abbandonassi la speculazione, « sento che uscirei perdente dal campo del piacere; e questa è l’origine della mia filosofia».
La filosofia di Hume manda in frantumi la ragionevolezza del XVIII secolo. Hume parte, come Locke, con l’incipit sensoriale ed empirico di non dar niente per ammesso ma di cercare ogni insegnamento che si possa trarre dall’esperienzae dall’osservazione. Ma, fornito di un’intelligenza superiore a quella di Locke, di una maggiore acutezza nell’analisi, e di una minor capacità di accettare delle confortanti incongruenze, Hume arriva alla disastrosa conclusione che dall’esperienza e dall’osservazione nulla si possa apprendere. Non esiste niente di simile ad una convinzione razionale. Non possiamo fare a meno di credere, ma nessuna convinzione può basarsi sulla ragione.
Era inevitabile che una simile auto-confutazione del razionalismo fosse seguita da un’esplosione di fede irrazionale. La disputa tra Hume e Rousseau è simbolica: Rousseau era pazzo, ma fu influente. Hume era savio ma non ebbe seguaci. I successivi empiristi inglesi respinsero il suo scetticismo senza confutarlo; anche Rousseau e i suoi seguaci dicevano che nessuna convinzione è basata sulla ragione, ma pensavano che il cuore fosse superiore alla ragione, e lasciavano che il cuore li conducesse a convinzioni assai diverse da quelle che Hume sosteneva in pratica. I filosofi tedeschi, da Kant ad Hegel, non hanno assimilato gli argomenti di Hume. Lo dico deliberatamente, a dispetto dell’opinione che molti filosofi hanno in comune con Kant, che la sua Critica della ragion pura rispondesse a Hume. In realtà questi filosofi, almeno Kant ed Hegel, rappresentano un tipo di razionali smo pre-humiano, e possono essere confutati con gli argomenti di Hume. I filosofi che non possono essere confutati in questo modo sono quelli che non pretendono di essere razionali, come Rousseau, Schopenhauer e Nietzsche, Il sorgere dell’irrazionalismo nel corso del XIX secolo, e quel tanto che ne è passato nel XX, sono una naturale conseguenza della distruzione dell’empirismo effettuata da Hume.
La religione
Per l’empirista Hume è impossibile dimostrare l’esistenza di Dio basandosi sulle considerazioni dell’ordine del mondo. Non si possono, infatti, paragonare fra loro realtà così diverse. Non si può neanche affermare che le serie causali che determinino gli eventi dell’universo implichino l’esistenza di una causa prima, in quanto le categorie di causa non hanno alcuna oggettività. Pure l’argomento ontologico (l’idea che abbiamo di Dio, cioè di essere perfettissimo implica necessariamente l’esistenza di questo ultimo che se non esistesse non sarebbe perfettissimo) viene criticato poiché, per il filosofo scozzese, un argomento a priori non può dimostare una verità di fatto come è l’esistenza di qualcosa. Da tutto ciò si deduce come una giustificazione teorica e razionale della religione non sia possibile. Secondo Hume, infatti, le religioni si fondano sul sentimento. In particolare è il timore, l’inquietudine per la propria debolezza e miseria, la speranza di una vita diversa a condurre l’uomo alla fede e a fargli credere in Dio.
La morale
La morale deve essere considerata del tutto autonomamente, esaminata e studiata non astrattamente ma attraverso indagini empiriche. La morale per Hume si basa sul fatto che: la bontà di un’azione deriva solo ed esclusivamente dalla sua utilità. In particolare la vita morale si sviluppa e si afferma grazie alla simpatia, cioè ad un sentimento con il quale ci sentiamo vicini ai nostri simili e partecipiamo alla loro felicità.
Il pensiero politico
Non è tanto una ragione astratta a fondare lo Stato (come pensavano i Giusnaturalisti) quanto la consuetudine, che organizza e regola la condotta degli individui, prescrivendo norme di comportamento che permettano la vita associata. L’obbedienza a cui ogni cittadino è tenuto nei confronti della società e dello Stato a cui appartiene è dovuta, non alla necessità di essere fedeli ad un presunto patto sociale originario, quanto al semplice assunto che, senza quella obbedienza, lo Stato non potrebbe continuare ad esistere. L’unica eccezione in cui l’obbligo di obbedire può essere non rispettato dal popolo è quandoi diritti di libertà sono gravemente offesi.