Le medicine e le terapie del XVII secolo rispecchiavano le idee della vecchia materia medica medievale. La composizione e la somministrazione dei medicinali non aveva subito cambiamenti, tuttavia fu proprio in questo periodo che presero forma le prime specialità medicinali: accanto ad antichi rimedi medievali come la triaca, il balsamo innocenziano, l’orvietano, l’unguento degli apostoli, l’eau d’arquebusade, comparvero nuove specialità come il balsamo tranquillo, il balsamo del Fioravanti, l’olio di Harem.
Accanto all’antico pensiero cominciò ad affacciarsi il nuovo spirito di osservazione e la farmacologia sperimentale che ha origini prettamente italiane. Si devono infatti a medici italiani del ‘600, Vallisneri, Borelli, Redi, i primi studi sull’azione dei farmaci.
È di quest’epoca l’avvento ufficiale della medicina spagirica, già studiata da Paracelso un secolo prima; prendono piede le prime composizioni chimico-farmaceutiche in antagonismo alla vecchia terapia anche se in modo progressivo.
Un contributo notevole fu dato dai nuovi semplici, introdotti nelle nostre farmacopee e nei trattati di materia medica, importati dal continente da poco scoperto e così ricco di prodotti ignoti agli abitanti della vecchia Europa: uno tra questi fu di più larga fama per gli avvenimenti clamorosi che ne accompagnarono la sua diffusione; la scoperta delle virtù antipiretiche della corteccia dell’albero di china, e, poi, la radice di Colombo, le foglie di digitale, il legno guaiaco, la radice di ipecacuana, il cui uso era già noto da secoli agli abitanti del brasile.
Fu il medico francese Le Gras ad introdurre in Europa questa radice, tornando dall’America alla fine del XVII secolo. Ma fu merito di Adriano Helvetius, anche se considerato un ciarlatano, a propagandare le virtù terapeutiche dell’ipecacuana dopo aver guarito il Delfino di Francia affetto da dissenteria.
La china o “Polvere della contessa”
Il farmaco che suscitò grande meraviglia fu la corteccia di china. Le sue virtù terapeutiche furono introdotte in Spagna grazie alla contessa di Chincon, moglie del Viceré spagnolo nel Perù, che ammalatasi di febbri intermittenti, guarì per mezzo di questa droga. All’epoca la china, si era intorno al 1625, veniva distribuita in forma di polvere costituita dalla corteccia macinata; da questo metodo di somministrazione, il medicinale fu chiamato polvere della contessa e conosciuto popolarmente, poiché veniva distribuito gratuitamente ai poveri. In Francia e in Italia il rimedio venne introdotto dal Procuratore dei Gesuiti del Perù, Padre Alonzo Messias Venegas nel 1645. A Roma occorse l’autorità della porpora per imporre l’adozione del nuovo medicamento. La sua azione benefica, infatti, urtava contro le numerose idee preconcette, perché fosse accettato senza discussioni ed ostacoli.
L’antimonio
L’antimonio fu un altro medicamento che nel secolo XVII ebbe una storia movimentata. Minerale quanto mai pericoloso per la sua alta tossicità, ne era tassativamente vietato lo spaccio da parte dei ciarlatani che ne facevano largo uso nella preparazione dei loro secreti. Già noto fin dall’antichità, l’antimono fu introdotto come terapia da Paracelso; la sua azione era quella di emetico-purgativo che poteva diventare pericoloso ed anche mortale se le dosi superavano la soglia o se il paziente non aveva la resistenza necessaria a sopportarlo. C’erano diverse modalità per somministrare l’antimono; quella più particolare era quella che consisteva nel fondere con esso tazze speciali che venivano dette calice chimico, Tazza purgativa perpetua, tazza rolandina, ecc. L’utilizzo era semplice: si riempiva la tazza di vino rosso o bianco e lo si lasciava a riposo per 12 ore se si era in estate e in 24 se si era in inverno. Passate le ore si beveva il vino che per reazione aveva formato al suo interno il tartaro emetico.
Gli antipestilenziali
Le conoscenze scientifiche dell’epoca non consentivano di ipotizzare l’eziopatogenesi della peste. Non si conoscevano disinfettanti (l’uso del cloro come antisettico risale al 1700 e quello dello iodio al 1873) né tanto meno si conoscevano i chemioterapici, per i quali bisognerà attendere il 1935. Per difendersi dal contagio, i medici raccomandavano di tenere in bocca una spugna imbevuta di aceto o di sostanze odorifere quali salvia, rosmarino, assenzio, aglio, noce moscata, canfora, che gli stessi sanitari usavano quando andavano a visitare gli appestati. Non esistendo i disinfettanti si utilizzavano vari rimedi al fine di “purificare” l’aria: bruciando zolfo, polveri da sparo, legni aromatici, imbiancando nuovamente le pareti delle case dove avevano soggiornato gli ammalati, nella convinzione che la calce possedesse energiche proprietà disinfettanti. Come rimedio antipestilenziale c’era “l’erba degli Angeli”, cioè l’Angelica che in realtà ha efficacia nelle dispepsie, nel meteorismo, nelle enteriti e cui effetto sulla peste era ovviamente nullo. C’erano poi rimedi famosi come l’Aceto dei quattro ladri, le pillole antipestilenziali (ricche di mirra, aloe, zafferano), il Balsamo del Samaritano a base di oglio, minio di Venezia, mastice in lagrime, allume di rocca, canfora, balsamo del Cappai, trementina di Venezia.
L’Orvietano
Tra i rimedi più reclamizzati c’era l’Elettuario dell’Orvietano, potente controveleno, inventato da Girolamo Ferrante da Orvieto, il medicamento più venduto e reclamizzato ma anche quello più imitato dai ciarlatani. L’Orvietano conteneva nella sua ricetta originale: radice di scorzonera, carlina, imperatoria, angelica, Bistor/a, aristologia lunga, contrajerva, dittamo bianco, galanga, genziana, foglie di salvia, rosmarino, ruta, cardo santo, dittamo cretico, bacche di lauro, ginepro, cannella, garofani, macis vipere con il cuore e il fegato, theriaca vecchia, miele spumato. Il tutto veniva polverizzato e condito con miele ben caldo e somministrano a dosi da uno a quattro cucchiai. Provocava vomito ed era utilizzato come purga ma non solo: il suo potere era soprattutto emetico e in più l’oppio contenuto nella teriaca serviva per lenire i dolori addominali.
Il Balsamo Innocenziano
Il Balsamo Innocenziano era un medicamento molto in vigore nel Seicento, che fu composto dietro richiesta di Innocenzo XI nella sua spezieria. Specifico per il trattamento delle ferite, nelle contusioni, e nelle distorsioni, il balsamo aveva un potere cicatrizzante. Esso conteneva: fiori d’iperico, radiche d’angelica, spirito di vino rettificato; a queste componenti si univano, dopo 24 ore, belzuino, storace, aloe succo trino, mirra, incenso. Dopo sei giorni veniva estratto dal composto il liquore che era pronto per l’uso.
Il rosolio stomatito
Il rosolio stomatito era considerato un vero e proprio segreto farmaceutico, consigliato sia da medici che da ciarlatani. Nel Seicento, dopo attenti esami la ricetta misteriosa fu svelata: non si trattava che di un banale miscuglio di genziana, zucchero e acquavite di bassa gradazione. Un’alternativa al rosolio stomatito era l’acqua medicamentosa che conteneva oltre ai miscugli contenenti nel rosolio, una soluzione di allume di rocca in alcool.
Il balsamo del Fioravanti
La fama di questo medicamento ideato dal più famoso medico ciarlatano della seconda metà del Cinquecento era tale che nel Seicento G. B. Capello lo definiva così: “mancano le parole all’Autore per laudare questo balsamo nel sanare le ferite, le piaghe putride e maligne ed altro male estrinseco”. Ogni ciarlatano o saltimbanco ne spacciava una copia giurando di esserne il possessore.
Il Cavalier Leonardo Fioravanti era un medico tuttavia la sua fama era in gran parte dovuta alla eloquenza e alla spregiudicatezza tipica di un ciarlatano. Era insomma un medico alla moda e le sue formule venivano discusse e valutate presso le Università. Il suo trattato più famoso era quello sulla Peste e tra i medicamenti più famosi da lui ideati si ricorda l’Elixir vitae, “un medicamento di tanta virtù e di tanta efficacia che giova in quasi tutte le infermità che patiscono li corpi humani perciochè quegli che sono caldi gli rinfresca e quegli che sono rigidi li riscalda”.
A sua volta il balsamo che porta il suo nome era “un licore miracoloso e divino”. Ma vediamo la sua composizione:
trementina, mirra, olio laurino, Galbano, Goma Hedera, Aloe, Bengioi, Incenso ed altro ancora…; il tutto in infusione per nove giorni nello spirito di vino”.
Va considerato che le sostanze contenenti in questo balsamo erano le stesse di altri innumerevoli antipestilenziali dell’epoca e non si capisce come mai il Fioravanti ebbe tanto successo.
La teriaca
Questo famosissimo medicamento del passato veniva prodotto e vendute dalle maggiori spezierie dell’epoca. L’etimologia del nome rappresenta ancora un dibattito aperto. Il prefisso greco ter significa bestia velenosa (si suppone la vipera); aca deriva dal verbo akeomai (sanare), per cui si deduce che un tale vocabolo significava “vipera guaritrice”. Di teriache ce ne erano tante e ognuna aveva la sua variante.
La Teriaca prodotta dai Gesuiti era composta da: Trocisci di Scilla, Trocisci di Vipera, Oppio, Pepe lungo, Unguento di Edichroo, Radice di Iris, Rose rosse, succo di Liquirizia, semi di Rapa, scordio, Opobalsamo, Cinnamomo, Agarico, Mirra, Costo Arabico, Zafferano, Cassia, Spigo, Giungo odoroso, Pepe nero, pepe bianco, incenso, dittamo, rabarbaro, rosmarino, marrobio, prezzemolo, calaminta montana, galbano, centaurea minore, panace, dauco di creta, bitume, Aristolochia, Castoreo, sapageno, visnaga, tlaspi, acacia, semi di finocchio, cardamomo minore, siler montano, anice, carpobalsamo, estratto di ipocisto, gomma arabica, genziana, calcite, malobatro, terra di Lemno, valeriana, trifagine, meo, nardo celtico, amomo, aiuga, polio-teucro, radice di ranuncolo, zenzero, trementina.
Le vipere venivano private di testa e coda, scorticate, aperte, lavate a lungo e messe a cuocere in acqua pura a fuoco lento per separare la carne dalla spina dorsale. Una volta cotta, la carne veniva pestata in mortaio per ricavare sottili lamelle che venivano messe a seccare all’ombra e in un luogo orientato verso il sole di mezzogiorno. L’intera operazione richiedeva quindici giorni al termine dei quali si trasferiva il preparato in vasi si stagno, vetro e qualche volta d’oro, dove veniva conservato.
La teriaca veniva utilizzata principalmente nel trattamento del dolore e probabilmente la presenza di oppio giustificava tale indicazione.
Nell’ottocento Guarini nel suo dizionario definì la teriaca: “ una bizzarra composizione figlia dell’empirismo, della ciarlataneria e della barbarie tuttavia ancora usata nelle febbri maligne, per calmare la tosse e le manifestazioni asmatiche”. Curiosamente la teriaca fu utilizzata fino agli inizi del Novecento.
Il mercurio
Il mercurio fu largamente utilizzato nel trattamento della sifilide. Fu Paracelso a sostenere, inascoltato, l’efficacia del mercurio nella terapia della sifilide screditando, nel contempo, il guaiaco come rimedio insicuro e incapace di prevenire ulteriori ricadute. I composti del mercurio furono utilizzati oltre che contro la lue anche come diuretici e come disinfettanti e nel 1617 venne proposto anche come antielmintico con l’avvertimento che, se assunto a piccole dosi, era velenoso soltanto contro i vermi.
L’intossicazione da mercurio è caratterizzata da stomatite, danni alla mucosa intestinale ed alterazioni renali fino all’anuria.
Antielmintici
La terapia antielmintica prevedeva un regime di vita tranquillo, un’alimentazione priva dei derivanti del latte, pesci e vino, e l’assunzione di cicoria, acqua di gramigna o sciroppo di assenzio. Seguiva la somministrazione di evacuanti, spesso a base di aloe. Notissimo come antielmintico era l’impiego della Felce maschio. Tuttavia la tossicità della felce maschio era altrettanto nota: poteva infatti provocare aborti, vomito, malessere generale, astenia, annebbiamento della vista, lipotimia, sonnolenza, dispnea, convulsioni, insufficienza cardiaca. L'assenzio era utilizzato come antielmintico ed era anche uno degli ingredienti dei maggiori antipestilenziali dell’epoca. Anche in questo caso c’erano degli effetti collaterali: crisi epilettiche, diarrea, vomito, crampi gastrointestinali.
La corallina officinalis, così denominata perché nasce sugli scogli e ricorda per l’aspetto un piccolo polipaio di corallo, è una pianta la cui droga veniva impiegata come antielmintico. L’iperico, il rabarbaro, la corallina e la genziana erano gli altri ingredienti utilizzati nelle formule antielmintiche dell’epoca. La genziana veniva anche utilizzata nel trattamento di alcuni fastidiosi problemi digestivi ma era controindicata per coloro che soffrivano di ulcera.
Si può concludere che le medicine e i rimedi del tempo avevano un loro spazio e una loro storia e rimanevano ancora intrise di un quotidiano antico fatto di tradizioni, credenze popolari, usi e costumi, il tutto inserito in una realtà sociosanitaria che risultava incredibilmente palpitante e viva, nonostante le contraddizioni, grazie ai passi avanti della scienza che proprio nel Seicento iniziava a percorrere nuovi sentieri.