La cucina nuova
bibliografia utilizzata:
La cuisine en France: Franck Spengler
La fame e l’abbondanza: Massimo Montanari, Laterza
La grande storia del vino, Alfredo Antonaros, Pedragon Bologna
Les plats qui on fait la France: Philippe Couderc, Julliard
Lo champagne: Enrico Guagnini, Sansoni
Storia della gastronomia, Maria Luisa Migliari, Edipem Novara
Il barocco in tavola: Raffaele Riccio, Atesa editore
Fisiologia del gusto, Anthelme Brillat Savarin, Sellerio editore Palermo
Tra il 1680 e il 1715 l’asse culturale europeo si sposta dal Mediterraneo al Mare del Nord. Si assiste così alla progressiva emarginazione dell’Italia dai centri propulsori di nuove forme di cultura. Anche l’arte culinaria segue questo processo: entra in crisi la cucina della tradizione tardo-rinascimentale, e la scuola gastronomica romano-fiorentina cessa di dettar legge in Europa. Al suo posto subentra la cucina francese: la terra dei Galli esporta idee, philosophes, maestri di ballo, parrucchieri e cuochi di classe.
Parecchie cucine nobiliari in tutta Europa cadono nelle mani esperte di cuochi transalpini che impongono la nuova moda culinaria. E’ la fine del luculliano pranzo medievale, caratterizzato da un caotico susseguirsi di gigantesche portate. Il nuovo motto è poca vivanda, ma in molte portate: tanti piatti con vivande leggere, da ammirare con gli occhi. Le carni pesanti lasciano il posto a salse preziose, estratti e consommé, brodi ristretti e gelatine. La masticazione viene assai ridotta, tutto è regolato da un ordine geometrico e una disciplina armonica. La ragione, esaltata dal Secolo dei Lumi, viene applicata dai philosophes anche alla “scienza del mangiar bene”. Colore, varietà, leggerezza sono le parole chiave di questa nuova gastronomia.
Bisogna dire per amor del vero che gli illuministi talvolta predicano bene e razzolano male: non pochi di loro, sedendosi a tavola, dimenticano tutti i propositi di razionalità e leggerezza e si lasciano andare agli eccessi. Neppure Voltaire riesce a sfuggire a indigestioni memorabili.
La cucina borghese
Segno dei tempi è anche la nascita di una terza cucina, oltre all’aristocratica e alla popolare: la cucina del ceto medio, formato da avvocati, mercanti, artigiani. Meno raffinata di quella aristocratica, ma capace di abbuffate colossali tra arrosti, salumi e fritti di ogni genere.
Roba da barbari, questa “cucina media”, per i raffinatissimi cuochi francesi al servizio dei più grandi signori d’Europa. Per questi, la cucina è un’arte quasi militare. Come armi hanno coltelli e girarrosti, per munizioni salse nuove e squisitissime. Ogni banchetto equivale a una battaglia dall’esito incerto, e un’eventuale sconfitta equivale alla perdita dell’onore: come ben dimostra il celeberrimo Vatel, che a causa di un mancato, tempestivo arrivo di pesce fresco si toglie la vita per lavare l’onta della sua débacle.
La cucina francese
Ma quando comincia, precisamente, la grande stagione dell’alta cucina francese? E’ormai assodato che la sua nascita risale al tempo dei lavori per il trattato di Utrecht (1713-14). La cucina francese si raffina e si perfeziona proprio alle tavole dei plenipotenziari che negoziano la fine della Guerra di Successione Spagnola, per poi prendere il volo negli anni della Reggenza (1715-1723): da questo momento la nuova scienza dei sapori darà una verve straordinaria alla cultura del secolo.
Non mancano le critiche: Rousseau, nel suo “Emilio”, scrive: I Franzesi credono di saper essi soli mangiare; ed io credo che sieno essi soli i quali non sappiano mangiare. Questo perché agli altri popoli, per mangiar bene, basta avere buon cibo e buon appetito, mentre ai Francesi è necessario avere anche un buon cuoco. Il conte Roberti, sempre ironico verso il “lezioso francese”, narra di un giovane signore italiano che si doleva con lui di non avere con sé il suo cuoco francese, dicendo: Io l’assicuro che non posso mangiare neppure un pollastro lessato, se non è cotto da lui o da un professore simile a lui. Al che il conte Roberti chiosa: O disgrazie di tali signori! Io mangerei non che un pollastro, ma un cappone, sebben fosse cotto nella castalda. Ma nonostante le critiche, ormai il dado è tratto.
L’arte abbandona la gonfia e pesante maniera barocca adottando forme più snelle, leggere e aggraziate; lo stile rococò esige nobile semplicità e asciutto decoro; i larghi e ridondanti abiti maschili si restringono e s’affilano; la cucina della vecchia società non risponde più al gusto nascente. Buon gusto fa rima con sobrietà: lo spendere in eccesso, i pranzi luculliani non sono più la dimostrazione migliore del lusso e della liberalità. Venendo alle cibarie, ciò significa che le carni pesanti perdono terreno, sostituite da ostriche e tartufi. Le conchiglie surclassano i pennuti.
Il declino della cucina rinascimentale e barocca è segnato dal tramonto delle grandi cacce, di tutto ciò che esprime movimento, forza, energia, vigore. Il Secolo della Luce Intellettuale preferisce cibarsi di organismi gelidi, inerti, semicadaverici: tartufi e molluschi, gelatine e brodetti. E sono proprio i rinnovatori dell’intelletto a scendere in campo: Riformare la cucina è il motto di Pietro Verri e del suo gruppo. Questi intellettuali vogliono liberarsi dal “grossolano nodrimento” del passato, dalla cucina delle generazioni feudali “assoporativa e dormitiva”.
Ecco spiegato il trionfo del caffé: ricco di “virtù risvegliativa”, celebra il risveglio della cultura settecentesca grazie alla sua capacità di rallegrare l’animo e tener all’erta il cervello. La bevanda perfetta per “le persone che fanno poco moto e che coltivano le scienze”. Nel manifesto riformatore di Verri, i prodotti locali vengono snobbati: I nostri migliori vini non mi piacciono e preferirei il mediocre vin d’Austria all’ottimo di Lombardia. Il nostro si beve per ubbriacarsi; l’altro è una limonata spiritosa, che rallegra e non più.
Bandite le carni viscide e pesanti, il nuovo gusto si orienta verso pollame, animali da cortile e cacciagione minuta. Assolutamente out il “selvaggiume” dai sapori violenti. Il pavone, relegato già dalla metà del Seicento a ornamento dei pranzi nuziali, nel Settecento cede definitivamente il passo al tacchino, e scompare dai menu. Vittime illustri del nuovo gusto sono poi le frattaglie, amatissime nell’età precedente. Le sperimentazioni barocche a base di gran fritture di cervelli e interiora varie vengono definite “barbarie” e censurate senza pietà.
I vascelli olandesi, inglesi, spagnoli e francesi portano in Europa novità gastronomiche. Le spezie, miscelate tra loro nei modi più svariati, legumi strani, tabacco, cacao, peperoni e nidi di rondine, caffé e tè, vaniglia e tacchini. I nidi di rondine sono una vera raffinatezza culinaria importata dall’oriente. Francesco Redi li descrive così: Vi sono alcuni uccelletti non molto diversi dalle rondini, i quali negli scogli lunghesso il mare di Cocincina fanno i loro piccoli nidi di color bianchiccio e di materia non dissimile dalla colla di pesce; i quali nidi strappati da quelle rupi son venduti a carissimo prezzo per nobilitare i conviti, che vili sarebbono e di poca solennità reputati, se non fossero conditi di questa strana imbandigione, che veramente è appetitosa, se da cuoco intendente venga maestrevolmente condizionata. E uno de’ modi di condizionarla si è, che mettono in molle que’ nidi in buon brodo di cappone o di vitella fino a tanto che eglino invincidiscano e rivengano; quindi in esso brodo gli cuocono, e poscia con burro, con formaggio e con varie maniere di spezierie gli regalano (…)
Cibo e precetti ecclesiastici
Le prelibatezze della buona tavola non vengono disdegnate dai membri altolocati del clero italiano. Questi, nei tempi di magro, ricorrono a ingegnosi trucchi culinari che dissimulano cibi vietati sotto spoglie innocue. Scrive Francesco Ridolfi: Mi ricordo aver veduto di Quaresima a’ conviti de’ grandi ecclesiastici, dove non si vuole scandolezzare, minestre bianche, triglie, linguattole e trote: ma le prime eran lance di cappon liquefatte, le seconde polpe di starne, di francolini e fagiani composte in forme di pesci.
Gli afrodisiaci
Nella cucina del tempo non mancano i cibi afrodisiaci, o presunti tali. Le corna e il membro del cervo – animale considerato particolarmente lussurioso – compaiono spesso alle tavole dei grandi, e i cuochi ne compongono diversi manicaretti appetitosi. Con le corna dure si fanno vari tipi di gelatine, “molto gustose al palato” secondo l’opinione di Francesco Redi. L’elisir di lunga vita è identificato invece nella carne di vipera, citata fin da Plinio come cibo che avrebbe il potere di allungare sensibilmente l’arco della vita umana. I ricchi e i potenti dispongono che con questa carne si allevino i volatili che debbono finire sulle loro tavole. Il mito terapeutico della carne viperina, come quello afrodisiaco della carne di cervo, si protrae fino ai primi decenni dell’Ottocento.
L'occhio vuole la sua parte
La cucina del Settecento privilegia la vista: la mensa deve offrire un colpo d’occhio di qualità. La ricerca della leggerezza ha come conseguenza il rimpicciolimento del vasellame e dei piatti, spesso ridotti a “tondini”. In compenso, si assiste al trionfo degli apparati effimeri che dall’architettura barocca si trasferiscono alla gastronomia: il centro tavola può avere svariati soggetti, ma con una preferenza per il tempio costruito in zucchero “massé”; il dessert scenografico è edificato sopra un ampio zoccolo en pastillage, i vasi di fiori sono modellati con pasta di mandorle.
Capolavori effimeri di arte decorativa, composizioni monumentali che possono richiedere anche 400 ore di lavoro, un quintale di zucchero e quindici chili di pasta mandorlata. Ma l’egemonia francese nel buon gusto e nella delicatezza non scalfisce del tutto il made in Italy: in tutta Europa si celebrano i liqueurs d’Italie e i glaces à l’italienne. La Toscana è rinomata per i liquori, Napoli per i gelati. I liquori da tavola sono il vanto della spezieria italiana, e non mancano mai nelle credenze dei signori.
Gli odori della tavola
Cucina per l’occhio, cucina per il naso: anche l’olfatto cambia nel Settecento. I profumi forti e pungenti dell’era barocca vengono respinti con disgusto. Banditi i sentori acri e maschili, il muschio, lo zibetto, l’ambra; prediletti gli aromi femminili, le delicate essenze vegetali. Sono tempi duri per cibi dall’odore forte, come formaggio, cavolo, aglio e cipolla. In una società salottiera e galante, dove la dama acquista un ruolo di grande rilievo, non sono ammessi afrori volgari. Per l'elìte buongustaia, il protagonista assoluto delle merende galanti estive è senza dubbio il sorbetto al cioccolato, magari impreziosito dalla vaniglia, dalla scorza d’arancio, o da gocce di gelsomino distillato. Questo mirabile dono che il Nuovo Mondo ha fatto alla vecchia Europa ammorbidisce e raffina il gusto assuefatto da secoli alle droghe pungenti provenienti dall’Oriente. Quanto allo zucchero, si diffonde enormemente grazie al flusso continuo di zucchero di canna proveniente dalle Americhe che ne abbassa i costi, sostituendo parzialmente l’uso antico del miele e dei fichi.
I vini nel settecento
L’internazionalismo dei cibi e il cosmopolitismo del gusto si nota bene dando un’occhiata alla carta dei vini del Settecento. I prodotti italiani non se la passano benissimo: sulle tavole dell’Italia elegante arrivano vini tedeschi, austriaci, tirolesi, ungheresi; addirittura i bianchi e i rossi del Capo di Buona Speranza. Snobbati in patria, i vini italiani cercano riscatto all’estero: il Granducato di Toscana riesce a trovare un nuovo mercato per i suoi Chianti nell’Inghilterra di Carlo II.
Intelletuali a confronto
Chi resta fedele alla tradizione e ai modi di vivere italiani non può soffrire l’arroganza francese. L’abate Roberti, ben lungi dall’essere un asceta, amante di prosciutti, salami e mortadelle, critica le mode capricciose e frivole provenienti da oltralpe e adottate da molti aristocratici come vangeli. Soprattutto, detesta la disumanizzazione che affligge il suo tempo e certa cultura cosiddetta “illuminata”: la chiusura verso le classi inferiori, il venir meno dello spirito di solidarietà e di carità cristiana tra i ricchi e gli intellettuali ben pasciuti, il cinismo e l’insensibilità di certi famosi maitre à penser.
Esemplare e incredibile l’aneddoto raccontato da Roberti a proposito di Bernard Le Bovier de Fontanelle, uno degli intellettuali più incensati di tutto il secolo: L’abate Dubos canonico di Beauvais visse familiarmente con Fontanelle, e si dicevano amici. Un giorno il canonico pranzava testa a testa coll’autore dei mondi, e fu presentato loro un mazzo di sparagi. Uno li voleva colla concia dell’olio, colla salsa l’altro. Convennero i due Socrati (…) dividerli per metà al gusto di ciascuno. Avanti che si apprestassero i due piattelli, l’abate Dubos fu colpito dall’apoplessia. Tutti i domestici furono in sommovimento. Fontanelle, il creator delle idee fine, diede gran prova di zelo, e corse sulla cima della scala a gridare, onde il cuoco lo intendesse: “tutti li sparagi colla salsa, tutti li sparagi colla salsa”. Sparito il cadavere, Fontanelle si mise a tavola e mangiò tutti gli sparagi, provando col fatto che ancora l’apoplessia era buona a qualche cosa.
Il cibo della vita mondana
Nel Settecento le corti vivono in un perpetuo giro di visite e di ciance, in cui cioccolato e caffé scandiscono i tempi di un cerimoniale e un’etichetta obbligatori. Chicchere, chiccherette, cioccolatiere entrano a far parte del panorama domestico di palazzi, ville, conventi, case agiate. Nascono quasi delle tossicodipendenze: alcuni ghiottoni si abbandonano a bevute spropositate di “brodo indiano”, come viene chiamata la cioccolata.
Oltre a caffè e cioccolato si diffonde il tè e il sidro, che sbarca anche in Italia. Al successo delle bevande calde si aggiunge quello di sorbetti, gelati, sciroppi, cedrate e limonate. Le bevande calde si consumano soprattutto nell’intimità dei salotti, quelle fredde nei gala e nei ricevimenti solenni.
Cambia il ritmo della vita, la notte sostituisce il giorno: alcune dame non dormono mai la notte, e a Parigi vengono dette graziosamente “lampadi”. Per queste dame, e per i loro accompagnatori, mangiare con appetito diventa sempre più faticoso. A furia di diete leggere e piatti vellutati, le gentildonne sono sempre più inappetenti e cadono svenute al primo sentore di una spezia un po’ forte. Queste salottiere del bel mondo sono ben diverse dalle donne del secolo precedente, che si riempivano di cibi fortemente aromatizzati e avevano il gusto della lussuria istintiva e della carne. Queste dame galanti sono protagoniste di amori più parlati e guardati che goduti. Il libertinaggio, largamente praticato, è un segno d’intellettualizzazione dei giochi erotici, di fruizione oziosa e svagata del corpo.
La cucina italiana
La provincia italiana continua a perseverare nella propria tradizione culinaria senza curarsi troppo – o meglio, senza sapere granché - della “tavola riformata”. Una minestra lenta o zuppa, uno stufato, un fritto e un arrosto continueranno almeno fino all’Ottocento ad essere la struttura fondamentale di un pranzo dell’Italia settentrionale. Anzi, possiamo dire che questo menu si protrae fino ai nostri giorni: basta andare in una qualsiasi trattoria emiliana, lombarda o piemontese per constatarlo. Il “mangiar largo” sopravvive felicemente, nel Settecento, a tutte le riforme e tutte le mode. Non mancano i forestieri appassionati della cucina tradizionale italiana, come il nobile Charles de Brosses, prefetto della Vaticana e collezionista di manoscritti e libri, nonché raffinato buongustaio e osservatore attento dei costumi alimentari italiani. Della cucina romana apprezza le vivande più tradizionali e comuni, soprattutto gli arrosti, lo storione del Tevere assaggiato in casa del cardinale Acquaviva d’Aragona gli pare degno di Apicio, l’erudito latino autore del trattato gastronomico più famoso della Roma antica. Questo perfetto conoscitore della “scienza del saper vivere” non avverte in nessun modo, in Italia, la mancanza di certe “delicatezze sociali” che secondo Pietro Verri erano di esclusiva proprietà dei francesi, sconosciute agli italiani e soprattutto a quelli meridionali.
La fine di un epoca
Nel primo decennio del XIX secolo, la dolcissima arte di costruire sulla polvere e d’imbalsamare l’effimero entra in un’amara agonia. Con la caduta dell’Ancien Regime cambia la società, e con essa il gusto. La viva e felice immaginazione della società settecentesca non rinascerà né sulle tavole della Restaurazione, né nella severa cucina dell’età romantica. L’età dello zucchero e dei capolavori dell’ingegneria credenziera è andata irrimediabilmente perduta.