La voce del Cielo
Con il termine castrato, termine un po’ brutale solitamente sostituito in ambito musicale dalle più aggraziate espressioni “evirato cantore” o “musico”, si definisce un cantante di sesso maschile al quale, prima della pubertà, è stata praticata l’evirazione chirurgica al fine di mantenere intatte le qualità di una voce che per tessitura (da tenore a soprano), estensione (anche tre ottave) e potenza d’emissione non ha eguali. Tali caratteristiche si dovevano al fatto che le corde vocali non subivano il normale ispessimento portato dalla maturazione sessuale, mantenendo al tempo stesso inalterata la caratteristica flessibilità di quelle dei bambini.
La loro corporatura, a causa dello squilibrio ormonale causato dall’asportazione dei testicoli, si sviluppava enormemente senza perdere la caratteristica elasticità del corpo infantile che permetteva di sviluppare un fisco androgeno, affascinante, possente e dotato di una capacità polmonare davvero incredibile.
In nome di Dio
Ereditata dalle antiche tradizioni orientali e bizantine, la pratica rituale della castrazione al fine di ottenere voci celestiali in grado di porre il fedele di fronte a qualcosa di inarrivabile, di alieno e soprannaturale, si sviluppò in Italia a partire dalla fine del Cinquecento. Tale pratica trovò terreno particolarmente fertile a Roma, dove era particolarmente rispettato il precetto di San Paolo che impone alle donne il silenzio in chiesa (I cor. XIV, 34). Non è infatti riconducibile, come spesso si sente affermare, che il successo dei castrati sia dovuto al divieto papale che impediva alle donne di esibirsi sul palcoscenico, editto che verrà emesso più tardi (1588) e che per giunta si limitava ai soli territori amministrati direttamente dal Papa. I castrati trovarono nella Roma del Cinquecento, e nella florida produzione polifonica di quel periodo, il giusto ambiente culturale e musicale per proliferare: la loro voce innaturale, angelica ma potente, sembrava pensata apposta per lasciare i fedeli meravigliati e attoniti durante le esecuzioni delle liturgie, diventando un magnifico strumento da porre come tramite tra l’Uomo e Dio. Il primo castrato a entrare nella celebre Cappella Pontificia fu probabilmente Francisco Soto de Langa nel 1562, seguito nel 1599 dai primi due grandi virtuosi Pietro Paolo Folignato e Girolamo Rossini. Il successo di questi “angeli dalla voce d’oro” fu tale che Clemente VIII provvide alla graduale sostituzione di tutti i cantori della Cappella con evirati. Va da sé che la pratica della castrazione venne così tacitamente ammessa, anche se mai legalizzata, dalla Chiesa al fine di piegare la natura umana al servizio di Dio. Con il sostanziale passaggio dalla polifonia alla monodia, nuovo genere in cui l’aria solista assurgeva a primario mezzo d’espressione, e con il successivo avvento del melodramma, i castrati divennero i protagonisti di uno dei momenti di massimo splendore di quel genere e della storia della musica vocale in genere.
I signori del Barocco
Il potente volano che scagliò i castrati fuori dal repertorio sacro per consegnarli all’età d’oro del melodramma barocco fu lo sviluppo dell’opera seria metastasiana: inzuppato com’era di personaggi idealizzati, prelevati direttamente dalla mitologia classica, e privati di realismo, quel genere di teatro musicale sembrava fatto apposta per ospitare quei “mostri” di bravura dalla voce potente, esseri in grado di arrivare con una sola presa di fiato dalle note gravi del tenore a quelle acute del soprano, spesso con agilità in grado di risolvere le scritture più impervie. Insomma, degli dei scesi in terra per interpretare gli dei del cielo. E’ infatti una credenza da sfatare quella che vuole i castrati impegnati soli in ruoli femminili: come detto la loro presenza sul palcoscenico non era dovuta al divieto imposto alle donne di esibirsi (attivo solo negli stati pontifici), ma piuttosto alle esigenze drammaturgiche di un teatro e di una scrittura musicale che cercava (e trovava) nelle loro abilissime capacità vocali e nel loro fascino asessuato il giusto mezzo per evocare quella superiorità e quella astrazione adatte a far rivivere gli eroi dell’età classica. Infatti, nella maggior parte dei casi i ruoli scritti per castrato sono maschili (eroi di specchiate virtù o divinità olimpiche) anteposti a ruoli femminili assegnati regolarmente a donne. In questo periodo d’oro, che possiamo limitare tra gli ultimi decenni del XVII secolo e la prima metà del XVIII, i castrati divennero i padroni indiscussi del teatro musicale: per loro i compositori erano chiamati a comporre le pagine più difficili e la loro presenza era richiesta in tutti i teatri più importanti d’Europa con contratti da favola. Basti pensare che nel 1737 il grande Farinelli si vide offrire dal re di Spagna uno stipendio annuo di 50.000 franchi: rimase al suo servizio per 25 anni col compito di cantare tutte le sere le stesse quattro arie.
Molte famiglie povere mandavano i loro ragazzi a scuola di canto nella speranza che le loro doti potessero lasciar presagire un dorato futuro: con buona pace del ragazzino, se il parere dei maestri era positivo, iniziava un duro allenamento vocale che consisteva in ore e ore di esercizi. Poi avveniva l’operazione vera e propria, che veniva compiuta da barbieri o norcini in gran segreto: può sembrare un controsenso ma la pratica della castrazione venne comunque sempre considerata illegale, anche se tollerata. Con una profonda incisione che partiva dall’ano, si provvedeva all’asportazione dei testicoli. Poteva anche capitare che l’operazione non desse i risultai sperati: al povero ragazzo non restava altro che lasciare l’istituto e darsi nel migliore dei casi all’insegnamento del canto presso le famiglie aristocratiche, pratica eseguita con grande apprezzamento anche da quei cantanti che, per raggiunti limiti di età, si ritiravano dalle scene. Celebre fu Girolamo Crescentini, grande evirato che calcò le scene più importati per poi ritirarsi all’insegnamento diventando maestro di musica della famiglia imperiale a Vienna e poi di Vincenzo Bellini. Inutile dire che i mariti prediligevano per le loro mogli e figlie insegnanti eunuchi ad attraenti giovanotti freschi di conservatorio. A tal proposito va inoltre precisato che raramente il castrato restava del tutto interdetto all’atto sessuale. Si hanno infatti notizie di evirati cantori sposati e dal noto appetito sessuale (fu il caso di Caffarello). Pare inoltre che mietessero non poche vittime pescando indistintamente tra uomini e donne. Così scrive di loro Casanova: “Con un busto ben fatto, aveva la vita di una ninfa e, sembra quasi incredibile, il suo petto non era per nulla inferiore, né per forma né per bellezza, a quello di una qualsiasi donna. Ed era proprio con questi mezzi che l’infame compiva tante stragi”.
Tra i castrati più noti vanno ricordati almeno Carlo Broschi (detto Farinello o Farinelli e dotato di estensione formidabile, dal do2 al do5), Gaetano Majorano (detto Caffariello, citato nel libretto del “Barbiere di Siviglia” rossiniano in qualità di rappresentate involontario di un genere vecchio e desueto di cantare), Baldassarre Ferri, Giuseppe Appiani, Gasparo Pacchierotti, Girolamo Crescentini e Giovan Battista Velluti.
Il tramonto di Venere e Marte
Diventati divinità del palcoscenico, i castrati cominciarono a vivere un lento ma inesorabile declino con l’avvento della riforma operata da Christoph Willibald Gluck. Espellendo dal teatro musicale trame prive di qualsivoglia nesso logico e riportando i caratteri dei singoli personaggi verso una dimensione sempre più intima e umana, riservando maggior importanza al senso del testo e bandendo ornamenti eccessivi, la riforma operata dal maestro di Erasbach pose i castrati ai lati del palcoscenico a favore di una “pulizia” vocale che non poteva declinarsi in quelle voci incredibili e soprattutto in quei caratteri capricciosi. Inoltre, con il crescente successo del repertorio buffo e farsesco, che preferiva le avventure quotidiane di servette scaltre e furbi parrucchieri a quelle di Apollo e Giulio Cesare, il castrato venne pian piano lasciato al suo destino, diventando poco più che un’attrazione da salotto, un virtuoso da esibire in belle occasioni di puro divertimento. Basti ricordare che per interpretare giovani paggi o ragazzotti in erba i compositori di nuova generazione (Wolfgang Amadeus Mozart in testa) preferirono ricorrere a mezzosoprani “en travesti” piuttosto che ai castrati (si pensi solo al ruolo di Cherubino ne “Le nozze di Figaro”). Più tardi ancora un compositore come Gioachino Rossini preferirà ricorrere ai contralti donna per infiammare i suoi gagliardi guerrieri di giovanile entusiasmo, piuttosto che arrendersi alle logiche di una moda che aveva ormai esaurito il suo corso. Tuttavia, ancora agli inizi del XIX secolo, i castrati trovarono ancora qualche penna disposta a omaggiarli: nel 1813 lo stesso Rossini scrisse il ruolo di Arsace nell’“Aureliano in Palmira” per Giovanni Battista Velluti, l’ultimo grande castrato della storia. La leggenda vuole che Rossini, sconcertato dai capricci di quel divo isterico sempre più ingordo di abbellimenti e virtuosismi improvvisati, abbia deciso di scrivere per intero le parti da cantare onde non lasciar più liberi i cantanti di piazzare abbellimenti qua e là a loro capriccio. E’ tuttavia Giacomo Meyerbeer l’ultimo compositore a scrivere un ruolo (Armando d’Orville)per castrato in un’opera, “Il crociato in Egitto” (1824), sempre per il grande Velluti. La fine definitiva di tale fenomeno venne segnata da chi l’aveva battezzato, la Chiesa. Nel 1903 Pio X vietò definitivamente l’utilizzo dei castrati nei cori imponendo l’uso di sole voci bianche.
Cecilia Bartoli, soprano, e l'ensemble il Giardino Armonico eseguono le più belle arie di bravura per castrati : l'Arte dei Castrati
E’ noto che Polo Pergetti, uno degli ultimi evirati, si esibisse a Londra ancora nel 1844. Perfino un grande riformatore come Richard Wagner accarezzò l’idea di utilizzare una voce tanto “aliena” per rendere più efficace il ruolo di Klingsor nel suo “Parsifal”: pare che abbia perfino contattato Domenico Mustafà, insegnante e cantore del coro della Sistina, ma che poi abbia preferito rinunciare. L’ultimo vero castrato di cui si ha notizia è stato Alessandro Moreschi (1858-1922) che riuscì perfino a registrare alcune sue performance nel 1903. Oggi i ruoli un tempo scritti per evirati sono di norma interpretati, a seconda della tessitura, da controtenori, contralti, mezzosoprani, soprani o sopranisti (questi ultimi sono uomini che tramite una tecnica particolare, quasi sempre di impostazione falsettistica, riescono a raggiungere tessiture femminili, anche se spesso con risultati assai deludenti e poca resistenza nelle tessiture più acute).
Aborro in su la scena,
un canoro elefante
che si trascina a pena
su le adipose piante,
e manda per gran voce
di bocca un fil di voce.
Ahi pèra lo spietato
genitor che primiero
tentò di ferro armato
l’esecrabile e fiero
misfatto onde si duole
la mutilata prole.
Giuseppe Parini
La vita del castrato
Questa meraviglia musicale aveva i suoi costi, molti ragazzi uccisi da operazioni malfatte che venivano spacciate per incidenti e una quantità maggiore di ragazzi che non erano più in grado di fare una vita normale e risultavano inadatti al teatro musicale.
Molti castrati erano ragazzi poveri con genitori ambiziosi. Il primo passo era andare in un conservatorio per far valutare la voce. Un responso positivo dava via libera alla castrazione e i genitori si affrettavano a combinare la cosa privatamente. Il bambino veniva drogato con oppio o altri narcotici e fatto sedere in una tinozza d’acqua molto calda finché non era quasi privo di conoscenza.
I pazienti che sopravvivevano erano ammessi in un conservatorio di musica per studiare. Poiché li si considerava delicati, ricevevano un vitto migliore e stanze meglio riscaldate degli altri studenti sessualmente intatti, e si badava con molta cura alla loro salute. Ciò non toglie che molti di loro odiassero la scuola e si dessero alla fuga. Altri avevano sì una voce da soprano, ma si rivelavano musicalmente poco dotati. Il vero problema era probabilmente il sovraccarico di lavoro: sei ore al giorno di lezioni più le ore supplementari di clavicembalo e composizione.
Tra i quindici e i vent’anni, dopo aver superato una serie di prove, il castrato ben riuscito faceva il suo debutto nell’opera lirica. La sua giovinezza, il fisico un po’ effeminato e la voce portentosa gli conquistavano subito l’adorazione del pubblico. I fan lo perseguitavano, nobildonne e nobiluomini indifferentemente si innamoravano. Casanova descrisse così la sua impressione: Con un busto ben fatto, aveva la vita di una ninfa e, sembra quasi incredibile, il suo petto non era per nulla inferiore, né per forma né per bellezza, a quello di una qualsiasi donna. Ed era proprio con questi mezzi che l’infame compiva tante stragi.
I castrati avevano una preparazione perfetta e conoscevano ottimamente la musica. Alcuni di loro però non arrivavano al successo e finivano nel giro dei teatri d’opera di provincia.
A dispetto della loro condizione di star, i castrati dovevano affrontare risentimenti, gelosie e perfino odio. I colleghi invidiosi e il grande pubblico disprezzavano la loro neutralità sessuale, li accusavano di adescare gli uomini e detestavano la loro arroganza e la loro vanità. Molti castrati erano famosi donnaioli con legioni di adoratrici desiderose di far l’amore con un uomo che non le avrebbe messe incinte e curiose di vedere che aspetto avessero quei famosi genitali. Tutta questa attenzione femminile, ovviamente, non migliorava l’immagine dei castrati presso gli uomini sessualmente intatti.
I castrati e il cinema
Con la particolare fisicità, che le caricature contemporanee ci hanno abituato a immaginare elefantiaca, e la loro naturale predisposizione all’esagerazione barocca della scena, i castrati hanno attirato l’attenzione di alcuni registi. Ne è un ottimo esempio il divertente “Le voci bianche” (1964), commedia diretta da Massimo Franciosa e Pasquale Festa Campanile che racconta le avventure di un evirato cantore che poi tanto evirato non è. Svetta su tutti “Farinelli voce regina”, faraonica produzione che nel 1994 calamitò l’attenzione del mondo intero su questo magnifico mondo sconosciuto ai più. Merito del film fu il lavoro computerizzato per ottenere una riproduzione della voce del protagonista che potesse essere più fedele possibile all’originale, riferendosi alle partiture scritte per lui: si dovettero miscelare più voci differenti ottenendo però una dominate acuta eccessivamente stridula e poco potente. La parte del grande castrato del titolo fu affidata a un efebico (ma poco istrionico) Stefano Dionisi, mentre quella del fratello compositore a un nemmeno efebico e ancor meno istrionico Enrico Lo Verso. Da ricordare anche la divertente sequenza del monicelliano “Il Marchese del Grillo” (1981) con la zuffa tra il soprano francese e i castrati romani a cui, per dirla con Onofrio, “girano le palle” per via dell’arrivo della concorrenza.
Farinelli voce regina, regia di G.Corbiau (1994)