La fame nel seicento è sempre tanta, il commestibile è raro e procurarselo è un assillo quotidiano soprattutto se si è dei nulla tenenti, o degli scrocconi. Francisco de Quevedo nel suo romanzo picaresco ' Il trafficone' descrive in modo preciso e divertente quali erano gli espedienti escogitati alla sua epoca dai gentiluomini che vivevano sulle spalle altrui con trucchi di ogni tipo pur di non lavorare.
Nel periodo barocco le opere di carità, il welfare, erano poche e se non si era nobili non era difficile cadere nelle condizioni di senza tetto alla ricerca costante di cibo.
Come si può notare, dallo scritto che riporto quì sotto, oltre alla difficoltà di procurarsi il cibo c'era anche la difficoltà di rimanere gentiluomini, le debolezze dovevano essere celate e si doveva recitar continuamente se si voleva campare nelle città come Madrid.
Estratto dal romanzo picaresco 'Il trafficone' di Franciscode Quevedo
Deve sapere per prima cosa che nella capitale c'è sempre il più sciocco e il più saggio, il più ricco e il più povero, e insomma i due estremi di tutte le cose; che essa sa celare i malvagi e nascondere i buoni, e che vi abitano certi tipi di gente (come me) che non possiede né beni immobili né mobili, né alcun’altra cosa tranne l’albero genealogico dal quale discendo. Tra di noi, ci si distingue con diversi nomi: gli uni ci chiamano gentiluomini “sciapi”, altri “malandati”, “falsi”, “insipidi”, “rifiniti” e “affamati”.
Nostra protettrice è l’astuzia. Il più delle volte ce la passiamo a stomaco vuoto, perché è un gran lavoro strappare il cibo da mani altrui. Siamo il terrore dei banchetti, il tarlo delle osterie, gli invitati per forza. Cosi ci cibiamo d’aria e viviamo contenti. Siamo gente che mangia un porro e mostra d’avere mangiato un cappone: se uno viene a farci visita in casa nostra, troverà le stanze piene di ossi di montone e di pollame, di bucce di frutta; la porta e la soglia ingombre di penne e di pelli di coniglio. E tutto questo lo andiamo raccogliendo di notte in giro per la citta, per farcene poi belli di giorno.
Appena l’ospite entra cominciamo a rimproverare: “E mai possibile che non riesca una volta a costringere la fantesca a dare una scopata?” E poi: “Vossignoria mi scusi: hanno mangiato qua con me certi amici, ma questi benedetti domestici...” Chi non ci conosce, credo che sia la pura verità, e sembra ci sia stato un banchetto.
E che dirò poi degli espedienti per andare a mangiare in casa altrui? Quando s’è parlato con un tale una mezza volta, già sappiamo dov’è la sua casa, e poi andiamo a trovarlo sempre all’ora di masticare (quando, beninteso, si sa che è già in tavola); diciamo che ci conduce il nostro affetto per loro, e che di menti elette come quelle, eccetera.
Se ci domandano se abbiamo già mangiato, se non hanno ancora incominciato, rispondiamo di no; se ci invitano a prender posto, non aspettiamo di sentircelo dire due volte, perché ci é già capitato che per far complimenti si sono dovuti fare grandi digiuni.
Se invece hanno già incominciato, diciamo di si; e poi, anche se scalca a perfezione il polio, o la carne, o taglia il pane, o qualsiasi altra cosa, tanto per cogliere l’occasione di buttar giù un boccone, diciamo: Ora vossignoria lasci fare a me, che voglio farle da maggiordomo; Tizio, che Dio l’abbia in gloria» “soleva divertirsi più a vedermi scalcare che a mangiare”. E in cosi dire, impugniamo il coltello e incominciamo a tagliar bocconcini; poi alla fine diciamo:
“Oh, che buon odore! Farei proprio un gran torto, alla cuoca, se non l’assaggiassi: ha davvero le mani d’oro!” detto fatto, in assaggi se ne va mezzo piano: il navone perché è navone, il lardo perché è lardo, e ogni cosa, insomma, perché è quel che è.